Dimissioni per fatti concludenti: criticità applicative e ruolo dell’Ispettorato del lavoro
L’art. 19 della Legge n. 203 del 2024 (Collegato lavoro) ha introdotto l’istituto delle dimissioni per fatti concludenti; si tratta di una specifica procedura che deve essere seguita dal datore di lavoro finalizzata alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro per volontà, implicita, del lavoratore.
L’introduzione di questo istituto ha sin da subito destato numerose perplessità da parte degli studiosi della materia e delle stesse istituzioni non solo sul versante squisitamente giuridico ma anche pratico. Difatti, tale istituto presenta delle novità peculiari che lo rendono radicalmente diverso rispetto a quello introdotto dall’
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art. 4 della Legge n. 92 del 2012.
Il presente contributo si pone l’arduo compito di descrivere i tratti salienti dell’istituto analizzando la ratio, la natura giuridica e le principali criticità, in un contesto ancora privo di riferimenti giurisprudenziali che possano offrire un orientamento agli operatori del diritto.
Sommario |
La ratio e la natura giuridica delle dimissioni per fatti concludenti
L’istituto delle dimissioni per fatti concludenti viene previsto al comma 7 bis dell’
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art. 26 del d.gs. n. 151 del 2015 che si occupa della disciplina delle dimissioni telematiche. Più nel dettaglio, la norma sancisce che “in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.
La ratio della norma si rinviene nell’esigenza di evitare l’abusivo riconoscimento della Naspi a favore di lavoratori che, anche in accordo con i datori di lavoro, non si presentano sul luogo di lavoro senza aver formalizzato le proprie dimissioni e che, pertanto, vengono licenziati per giustificato motivo soggettivo.
A ben vedere, la norma possiede una ratio proteiforme poiché, non solo è finalizzata ad evitare indebite elargizioni di denaro pubblico a fronte di abusi, ma anche volta ad un risparmio di spesa a favore del datore di lavoro (in quanto non è dovuto il contributo di ingresso alla NASpI) e ad una maggior celerità e speditezza della cessazione del rapporto di lavoro. Difatti, le dimissioni per fatti concludenti sono una procedura alternativa rispetto al licenziamento che segue il complesso iter previsto dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori che contempla: la contestazione del fatto; la presentazione eventuale di giustificazioni da parte del lavoratore; il provvedimento di risoluzione unilaterale del datore di lavoro.
Ben più complessa è la natura giuridica della norma; invero, da una prima sommaria lettura del comma 7 bis dell'art 26 d.lgs. n. 151 del 2015 sembrerebbe che si tratti di un fatto giuridico con effetti predeterminati dalla legge, come accede nel caso di contratto concluso mediante esecuzione spontanea dell’obbligazione senza la necessaria accettazione preventiva. Tale soluzione sarebbe altresì supportata sia dal fatto che l’intervento dell’Ispettorato del lavoro risulta eventuale, sia dall’immediata produzione degli effetti risolutivi del rapporto di lavoro.
Tuttavia, tale soluzione mal si concilia con il ruolo di svolto dall’Ispettorato del Lavoro ovvero di accertamento della veridicità della comunicazione del datore di lavoro e dell’eventuale sussistenza di cause che non hanno permesso al lavoratore di giustificare la propria assenza.
Invero, per parte della dottrina le dimissioni per fatti concludenti sarebbero un negozio complesso sottoposto alla clausola risolutiva espressa della veridicità della comunicazione rivolta all’Ispettorato. Tuttavia, tale soluzione non può essere accolta visto che la clausola risolutiva espressa ha natura pattizia, mentre l’accertamento volto dall’Ispettorato è previsto dalla legge.
Una seconda teoria propende per la tesi del negozio giuridico unilaterale sottoposto alla condizione della veridicità della comunicazione effettuata dal datore di lavoro. Anche tale impostazione non convince visto che la condizione, in qualità di elemento accessorio del contratto, dovrebbe essere prevista dalle parti e non da una disposizione legislativa.
Pertanto, sarebbe preferibile sussumere il fenomeno delle dimissioni per fatti concludenti nell’alveo delle fattispecie complesse ovvero a formazione progressiva connotate dalla presenza di una pluralità atti che producono effetti giuridici predeterminati dalla legge. Invero, le dimissioni per fatti concludenti presupporrebbero, da un lato l’assenza del lavoratore per un periodo di tempo fissato dalla legge o dal CCNL (fatto giuridico), e dall’altro la veridicità della dichiarazione del datore di lavoro rivolta ad una Pubblica Amministrazione (condicio iuris). Ne consegue che nel caso in cui l’Ispettorato accerti delle cause di impossibilità di comunicazione del lavoratore (ad esempio un ricovero ospedaliero), la fattispecie complessa delle dimissioni per fatti concludenti sarebbe imperfetta, poiché carente di un elemento essenziale e, quindi, improduttiva di effetti. Tale inefficacia, però, non sarebbe automatica ma necessiterebbe di una revoca da parte del datore di lavoro o di una statuizione giurisdizionale.
La disciplina
Dal punto di vista della disciplina delle dimissioni per fatti concludenti, giova sin da subito evidenziare che il comma 7 bis dell’art. 26 del d.lgs n. 151 del 2015 non trova applicazione per i lavoratori che fruiscono della maternità, del congedo di paternità o per coloro che abbiano presentato le dimissioni entro i tre anni di nascita del bambino, ciò in ragione del principio di specialità. Al contempo, la disposizione non trova applicazione per i lavoratori che sottoscrivono accordi di risoluzione consensuale o ratificano le dimissioni presso le commissioni di conciliazione o presso gli altri organismi abilitati. Inoltre, come si è già osservato, tale istituto è alternativo e non si sostituisce alla procedura di licenziamento.
Dal punto di vista del regime intertemporale, in assenza di specifiche disposizioni legislative, le dimissioni per fatti concludenti possono trovare applicazione anche per i rapporti di lavoro pregressi all’introduzione della norma, purché non cessati per altra causa.
Ora, affinché possa operare l’istituto in questione, è necessario seguire uno specifico iter procedurale: verifica del decorso del termine; comunicazione all’Ispettorato del Lavoro; comunicazione all’INPS attraverso il flusso Uniemens; comunicazione ai servizi per l’impiego delle dimissioni per fatti concludenti entro cinque giorni dalla comunicazione effettuata all’Ispettorato.
Innanzitutto, è necessario verificare se è spirato il termine di quindici giorni previsto dalla legge o il diverso termine previsto dal CCNL. Difatti, nei contratti collettivi sono già previsti dei termini più brevi anche se ancorati al concetto di giorni lavorativi (starà poi alla contrattazione collettiva decidere se prolungare i termini già previsti viste le rilevanti conseguenze derivanti dall’assenza ingiustificata). Viceversa, diversi commentatori hanno affermato che il termine fisso di quindici giorni dovrebbe computare anche i giorni festivi considerato che troverebbe applicazione la norma generale prevista dall’art. 155 c.p.c.
Tuttavia, sembrerebbe più ragionevole e ponderata la tesi dottrinale secondo la quale bisognerebbe far riferimento alle giornate lavorative poiché nei giorni di festività o di chiusura dell’azienda il lavoratore non può ritenersi assente ingiustificato. Del resto, l’assenza ingiustificata dal lavoro è intimamente connessa alla possibilità in concreto di svolgere l’attività lavorativa e che, pertanto, non si può nemmeno discutere di assenza del lavoratore nel caso di chiusura temporanea dell’impresa per ragioni produttive, per festività[1] ovvero per altra causa. L’adesione alla teoria in questione avrebbe il pregio di evitare abusi del datore di lavoro che, in occasione delle festività o del periodo estivo di chiusura aziendale, potrebbe considerare parte significativa delle “assenze” (se non la totalità del periodo) ai fini dell’operatività delle dimissioni per fatti concludenti, con ciò generando gravi discriminazioni. Infine, è stato osservato che l’art. 155 c.p.c. non potrebbe trovare applicazione non solo in ragione della sua settorialità (relegata alla disciplina dei termini processuali), ma anche per la specialità dell’art. 7 bis dell’art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015.
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Il ruolo dell’Ispettorato del lavoro: limiti e poteri
Decorso il termine previsto dalla legge o dal contratto collettivo, il datore di lavoro deve comunicare all’Ispettorato che il lavoratore si è dimesso per fatti concludenti. Nel dettaglio, con la nota n. 579 del 2025 l’INL ha predisposto un modulo che deve essere compilato a cura del datore di lavoro, nel quale devono essere riportati i dati identificativi del datore, del lavoratore l’ultima residenza, l’e-mail ed il numero di telefono del lavoratore e, eventualmente, il CCNL applicato.
Per un principio di competenza territoriale, la comunicazione all’Ispettorato deve essere incardinata presso la sede territoriale competente in base al luogo di svolgimento dell’attività lavorativa. Nel caso in cui il lavoratore lavori su più sedi fisiche ubicate in diverse province, la comunicazione dovrà essere fatta a tutte le sedi provinciali competenti dell’Ispettorato. In tal caso, sarà necessario costruire un meccanismo di raccordo per la gestione dell’istruttoria fra le sedi, al fine di evitare la proliferazione di paralleli accertamenti in ossequio al principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost.
L’art. 26 c. 7 bis del d.lgs n. 151 del 2015 sancisce che l’Ispettorato del lavoro “può verificare la comunicazione medesima”; ciò è stato nuovamente ribadito anche nella nota dell’INL n. 579: “Sulla base della comunicazione pervenuta e di eventuali altre informazioni già in possesso degli Ispettorati territoriali, gli stessi potranno avviare la verifica sulla veridicità della comunicazione medesima. In tal senso gli Ispettorati potranno dunque contattare il lavoratore – ma anche altro personale impiegato presso il medesimo datore di lavoro o altri soggetti che possano fornire elementi utili – al fine di accertare se effettivamente il lavoratore non si sia più presentato presso la sede di lavoro, né abbia potuto comunicare la sua assenza. Al fine di non vanificare l’efficacia di eventuali accertamenti, gli stessi dovranno essere avviati e conclusi con la massima tempestività e comunque entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro”.
Pertanto, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto affidare ad un’autorità pubblica una sorta di controllo a campione volto alla tutela dei lavoratori, senza appesantire troppo le singole sedi dell’Ispettorato che, come è noto, risultano tutt’ora non a pieno organico. Si tratterebbe allora di un controllo facoltativo sull’an dell’esercizio del potere, funzionale a bilanciare l’interesse della tutela dei lavoratori avverso gli abusi del datore di lavoro a cui fa da contraltare l’efficienza e l’efficacia amministrativa dell’Ispettorato.
Tale soluzione normativa però mal si concilia con le esigenze di tutela proprie della materia giuslavoristica, anche in ragione delle rilevanti conseguenze che comportano le dimissioni per fatti concludenti (risoluzione del contratto di lavoro e perdita della NASpI). Infatti, in ossequio al principio di uguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost. e in base al diritto ad una buona amministrazione ex art. 97 Cost e art. 41 della Carta di Nizza si potrebbe sostenere la natura vincolata dell’intervento dell’Ispettorato del lavoro. Si tratta di una soluzione non del tutto peregrina che trarrebbe origine anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di autotutela doverosa nell’an e\o nel quomodo in materia di indebite erogazioni pubbliche, per ragioni di giustizia sostanziale o per falsità commessa dal privato[2].
Qualora l’Ispettorato del lavoro decidesse di attivarsi, l’istruttoria potrà avere diversi esiti in base all’eventuale comportamento del lavoratore.
Se il lavoratore non dovesse rispondere nonostante i tentativi di contatto (a mezzo e-mail, telefonate o raccomandate) o dovesse confermare di non aver comunicato al datore la propria assenza, si consoliderebbero gli effetti delle dimissioni per fatti concludenti: la risoluzione del rapporto di lavoro; la perdita della NASpI; trattenuta dell’indennità di mancato preavviso a favore del datore di lavoro;
Ben più complesso è il caso in cui il lavoratore produca documenti all’Ispettorato che attestino la sussistenza di una giusta causa della mancata comunicazione e\o della sua assenza a lavoro (ricovero ospedaliero, comportamenti abusivi del datore di lavoro ecc). In tal caso, è di fondamentale importanza interrogarsi sui limiti delle valutazioni dell’Ispettorato e dei suoi poteri istruttori.
Alcuni commentatori, adottando un approccio garantistico, sostengono che il vaglio dell’Ispettorato dovrebbe riguardare non solo le cause della mancata comunicazione dell’assenza al datore di lavoro, ma anche le ragioni dell’assenza stessa. Tale interpretazione si fonderebbe su argomenti di natura sia letterale che teleologica.
Anzitutto, il comma 7 bis dispone che “in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine […], il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima”. Da ciò si desumerebbe la necessità di un primo vaglio sulla reale sussistenza dello stato di "assenza ingiustificata" indicato nel modulo inviato all’Ispettorato. Tale controllo riguarderebbe la sussistenza o meno di un motivo valido e riconosciuto dall’ordinamento che ha condotto il lavoratore a non presentarsi sul luogo di lavoro. Tuttavia, il controllo sull’assenza ingiustificata diviene più complesso quando il datore non ritiene valide le giustificazioni addotte dal lavoratore. Generalmente, il datore non può qualificare ingiustificata l’assenza se il lavoratore ha fornito una motivazione, salvo che questa risulti manifestatamente infondata. Proprio in questi casi, il ruolo dell’Ispettorato risulta essenziale poiché dovrà verificare la sussistenza e validità delle cause che hanno condotto il lavoratore ad assentarsi (ad esempio la revoca di ferie già stabilite, permessi, trasferimento in altra sede ecc.).
Inoltre, questo vaglio sulle cause dell’assenza troverebbe conferma nella stessa natura dell’istituto; infatti, affinché l’assenza dal lavoro possa qualificarsi come fatto concludente, essa deve esprimere in modo chiaro e inequivocabile la volontà del lavoratore di non riprendere l’attività lavorativa. Del resto, nel diritto civile il silenzio o la mera inerzia, se non accompagnati da elementi che manifestino una volontà precisa, restano privi di significato giuridico.
In definitiva, il controllo dell’Ispettorato si articolerebbe in due fasi distinte. Un primo vaglio preliminare volto a verificare la sussistenza di un’assenza ingiustificata (an dell’applicazione della norma) e, successivamente, una valutazione – prevista nell’ultimo periodo del comma 7 bis – sulle cause che hanno impedito al lavoratore di comunicarne i motivi, qualora l’assenza risulti o sia stata ritenuta ingiustificata dal datore di lavoro (causa di inefficacia della comunicazione).
Tuttavia, l’INL nella già accennata nota del gennaio 2025[3] ha affermato che è compito dell’Ispettorato valutare solo la causa della mancata comunicazione dell’assenza al datore di lavoro e se questa è derivata da una causa di forza maggiore o da un fatto imputabile allo stesso datore di lavoro. Questa impostazione sarebbe in perfetta sintonia con il tenore letterale dell’art. 26 c. 7 bis del D.Lgs. n. 151/2015 a mente de quale “Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”. Ne consegue che i funzionari e\o gli ispettori dell’INL dovranno limitarsi a verificare la sussistenza di una causa di forza maggiore o di un fatto imputabile al datore che abbia impedito, in concreto, al lavoratore di giustificare la propria assenza.
Per forza maggiore si intende quell’accadimento umano o naturale irresistibile (vis cui resisti non potest) che abbia impedito al soggetto di conformarsi ad una regola di condotta imposta dall’ordinamento o dal contratto. La tesi prevalente annovera la forza maggiore tra le scriminanti ovvero fra quelle cause che rendono lecito un determinato comportamento, anche se non mancano opinioni che riconducono l’istituto in questione tra le cause di esclusione dell’imputabilità o della suitas della condotta. In ogni caso, deve trattarsi di un evento grave ed irresistibile che non permette in alcun modo al soggetto di conformarsi alla regola di condotta.
Calando tali considerazioni generali nell’ambito delle dimissioni per fatti concludenti, si può affermare che sul lavoratore grava l’onere di dimostrare la sussistenza di accadimenti irresistibili che abbiano in concreto impedito allo stesso di comunicare le ragioni della propria assenza dal lavoro (ad esempio un ricovero in ospedale o l’ordine di carcerazione).
L’ultimo periodo dell’art. 26 c. 7 bis del D.lgs. 151/2015 prevede anche il fatto imputabile al datore di lavoro tra le cause che abbiano impedito al lavoratore di comunicare i motivi che giustificano la propria assenza. Parte della dottrina[4] riconduce a tale ipotesi quei casi in cui in cui il datore riferisce al lavoratore di rimanere a casa e di non tornare più sul luogo di lavoro.
Tuttavia, i casi sopra accennati seppur effettivamente causa della mancata comunicazione, non permetterebbero nemmeno in astratto l’operatività delle dimissioni per fatti concludenti, perché il datore già sapeva le cause dell’assenza dal lavoro. Inoltre, questa condotta costituirebbe un abuso di uno strumento legale finalizzato anche ad un risparmio di spesa. Sicché il comportamento in questione non solo determinerebbe l’inefficacia delle dimissioni per fatti concludenti, ma potrebbe altresì integrare gli estremi del reato, tentato o consumato, di truffa aggravata ai danni dello Stato ex art. 640 c. 2 n. 1 c.p. Difatti, in linea teorica sarebbero presenti: degli artifizi e raggiri e l’induzione in errore derivanti da una falsa rappresentazione dei fatti all’Ispettorato del lavoro; il danno sia del lavoratore (perdita della NASpI) sia dello Stato (mancato versamento del ticket); l’ingiusto profitto rappresentato dal risparmio di spesa sempre correlato al mancato versamento del ticket della NASpI e alla trattenuta dell’indennità di mancato preavviso; il dolo generico del datore di lavoro.
In realtà, tra i fatti imputabili al datore di lavoro si dovrebbero annoverare tutti quei casi di negligenza ed imperizia del datore come, ad esempio, il mancato controllo della mail aziendale o di irreperibilità del datore stesso.
Si discute se in questa clausola generale possa rientrare anche il caso del concorso di responsabilità del datore con quella del lavoratore. Si pensi al caso del lavoratore straniero, venuto per la prima volta in Italia, che non sappia cosa fare in caso di malattia non grave o di altro impedimento materiale che non gli permetta di recarsi a lavoro. Una prima tesi ritiene che per causa “imputabile al datore di lavoro” debba intendersi quella causa che trae esclusiva origine dalla condotta del datore e ciò in ragione di una interpretazione letterale della norma in conformità ai principi generali.
Viceversa, una seconda tesi propende per una interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata al principio solidaristico ex art. 2 Cost. facendo convergere nella causa imputabile al datore di lavoro anche quelle condotte frutto di un concorso di colpe, purché abbia un peso preponderante la condotta negligente ed imperita del datore di lavoro. Pertanto, riprendendo il caso sopra esaminato la causa della mancata comunicazione al datore trarrebbe origine, in via preponderante, dal fatto che il datore non ha correttamente informato il lavoratore su come agire in un caso del genere. Difatti, al contratto di lavoro si applicano le regole generali in tema di correttezza e buona fede ex artt. 1175, 1375 c.c. che comportano la nascita di obblighi informativi in capo al contraente più forte.
Gli adempimenti burocratici dell’Ispettorato ed il ripristino del rapporto di lavoro
La nota n. 579 del 2025 dell’INL si occupa anche degli adempimenti che dovranno essere svolti dalle sedi territoriali dell’Ispettorato. Segnatamente, viene stabilito che “Sulla base della comunicazione pervenuta e di eventuali altre informazioni già in possesso degli Ispettorati territoriali, gli stessi potranno avviare la verifica sulla “veridicità della comunicazione medesima”. In tal senso gli Ispettorati potranno dunque contattare il lavoratore – ma anche altro personale impiegato presso il medesimo datore di lavoro o altri soggetti che possano fornire elementi utili – al fine di accertare se effettivamente il lavoratore non si sia più presentato presso la sede di lavoro, né abbia potuto comunicare la sua assenza. Al fine di non vanificare l’efficacia di eventuali accertamenti, gli stessi dovranno essere avviati e conclusi con la massima tempestività e comunque entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della comunicazione trasmessa dal datore di lavoro.”
In altri termini, la nota dell’INL fornisce il potere al personale dell’Ispettorato di acquisire tutta la documentazione necessaria concernente l’assenza del lavoratore e le ragioni della mancata comunicazione dell’assenza al datore di lavoro. Pertanto, potranno essere acquisite dichiarazioni, messagistica cartacea e\o virtuale ed e-mail che saranno liberamente valutabili dal personale incaricato ad espletare la relativa istruttoria. Tale soluzione sarebbe conforme a quanto affermato dall'ordinanza n. 1254 del 18.01.2025 della Corte di cassazione secondo cui i messaggi "whatsapp" possono essere utilizzati quale prova documentale nel processo e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti mediante la mera riproduzione fotografica.
Al contempo, giova rammentare che, se dagli accertamenti emerga il fumus del reato di truffa aggravata ex art. 640 c. 2 n. 1 c.p. o di altro reato procedibile d’ufficio, sussisterà in capo al responsabile dell’istruttoria o ad altro soggetto delegato l’obbligo di trasmissione della notizia di reato alla Procura della Repubblica competente.
La nota dell’INL prevede un ulteriore adempimento nel caso in cui venga accertata la sussistenza di una giusta causa relativa alla mancata comunicazione dell’assenza del lavoratore al datore. Nello specifico, viene ribadito che il personale dell’Ispettorato dovrà comunicare “l’inefficacia della risoluzione sia al lavoratore – il quale avrà diritto alla ricostituzione del rapporto laddove il datore di lavoro abbia già provveduto alla trasmissione del relativo modello Unilav – sia al datore di lavoro possibilmente riscontrando, con lo stesso mezzo, la comunicazione via PEC ricevuta”. In ragione dei principi di correttezza istituzionale e di efficacia dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost., l'Ispettorato del lavoro dovrebbe altresì comunicare gli esiti della propria istruttoria anche all'INPS per le determinazioni di sua competenza.
A questo punto è opportuno soffermarsi, seppur brevemente, sull’inefficacia della risoluzione del rapporto di lavoro. La stessa nota dell’INL, così come parte della dottrina[5], evidenzia che il lavoratore è titolare di un diritto soggettivo alla ricostituzione del rapporto, con la conseguenza che il personale dell’Ispettorato non ha il potere di disporne il ripristino, prerogativa riservata all’autorità giudiziaria o alle parti anche mediante un accordo privato e\o conciliativo. Parte della dottrina ritiene che gli unici poteri che possono essere esperiti dall’INL consistano: in una eventuale ispezione finalizzata all’accertamento dei fatti; in un potere sanzionatorio ex
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art. 11 d.lgs. 124 del 2004; nella diffida accertativa; nel provvedimento di disposizione.
Ad onor del vero, va rilevato che il lavoratore può presentare una richiesta di intervento quando la sua assenza dal lavoro risulti collegata ad un mancato pagamento delle proprie spettanze retributive (straordinari non pagati, tredicesima, stipendi ecc.). In questo caso, la pratica potrebbe essere affidata ad un ispettore\funzionario per verificare la possibilità di addivenire ad un accordo conciliativo in sede monocratica, anche in relazione alla ricostituzione del rapporto di lavoro.
In ogni caso, giova sottolineare che dal ripristino del rapporto di lavoro deriverebbero anche importanti spese patrimoniali a carico del datore di lavoro, il quale sarà costretto ad ottemperare all’obbligo contributivo per tutto il periodo riconosciuto e non lavorato, oltre a risarcire gli eventuali danni subiti dal lavoratore.
Conclusioni
L’istituto delle dimissioni per fatti concludenti solleva rilevanti criticità sia sotto il profilo della tutela del lavoratore sia in relazione ai principi costituzionali. La presunzione legale di volontarietà dell’assenza dal lavoro, infatti, rischia di comprimere il diritto di difesa del prestatore di lavoro, il quale, in caso di impossibilità di comunicare le ragioni dell’assenza, subisce la risoluzione automatica del rapporto senza le garanzie procedimentali previste per il licenziamento e con importati esborsi economici per richiedere al giudice la ricostituzione del rapporto di lavoro.
L’assenza di un contraddittorio preventivo pone interrogativi sulla compatibilità della norma con l’art. 24 Cost., in quanto il lavoratore potrebbe trovarsi nella condizione di dover provare ex post l’inesistenza della volontà dimissionaria, con evidente inversione dell’onere probatorio. Inoltre, la norma potrebbe risultare lesiva dell’art. 41 Cost., in quanto attribuisce al datore di lavoro un potere di risoluzione del rapporto svincolato dalle tutele previste per il licenziamento.
Infine, tale istituto appare in contrasto con il principio civilistico dell’irrilevanza del silenzio e dell’inerzia, che presuppone che l’assenza di manifestazioni esplicite di volontà non possa determinare autonomamente l’efficacia di un atto giuridico, se non supportata da elementi ulteriori che consentano di ricostruire in modo univoco la volontà del lavoratore. Inoltre, risulta in contrasto con il principio della vincolatività del rapporto obbligatorio, il quale impone che le modifiche sostanziali del contratto siano frutto di una manifestazione di volontà chiara e inequivocabile.
Proprio per queste ragioni, una modifica legislativa appare necessaria per accertare con maggiore sicurezza l’effettiva volontà del lavoratore di non riprendere servizio. Una soluzione potrebbe consistere nel potenziamento dei poteri dell’Ispettorato del Lavoro, attribuendogli un ruolo vincolante nel procedimento: la risoluzione del rapporto potrebbe avvenire solo previa verifica della situazione culminante in un provvedimento vincolante sia per le parti che per l'INPS. In tal modo, si garantirebbe un contraddittorio preventivo tra le parti, evitando un danno immediato per il lavoratore con ciò preservando, al contempo, le esigenze di certezza e celerità che l’istituto mira a soddisfare.
Pertanto, ad oggi la disciplina in esame potrebbe essere oggetto di una questione di legittimità costituzionale, specie laddove non sia garantita un’effettiva possibilità di difesa al lavoratore, anche in ragione del concreto rischio di un uso abusivo e fraudolento dello strumento da parte datoriale.
Nell’attesa di futuri interventi giurisprudenziali o normativi, assumerà un ruolo centrale l’Ispettorato del Lavoro, chiamato a svolgere un compito di estrema delicatezza. La sua attività di controllo sarà determinante per prevenire applicazioni distorte dell’istituto, garantendo che la risoluzione del rapporto avvenga nel pieno rispetto dei diritti del lavoratore e scongiurando possibili abusi da parte datoriale.
[1] Salvo che il lavoratore non sia obbligato ad effettuare la propria prestazione nei giorni festivi.
[2] Sul punto si segnala la sentenza del Consiglio di Stato nr. 4078 del 6 maggio del 2024. Per un approfondimento giurisprudenziale sul punto vds. “l’autotutela doverosa” di Nicola Durante, www.giustizia-amministrativa.it;
[3] vds. Nota n. 579 del 2025: “Nell’ipotesi in cui risulti che il lavoratore, pur contattato dall’Ispettorato, sia stato assente senza giustificato motivo e non abbia dato prova dell’impossibilità della relativa comunicazione, il rapporto dovrà ritenersi comunque risolto. Al riguardo, i motivi alla base dell’assenza (ad es. mancato pagamento delle retribuzioni) potranno tuttavia essere oggetto di una diversa valutazione anche in termini di “giusta causa” delle dimissioni rispetto alle quali si provvederà ad informare il lavoratore dei conseguenti diritti”.
[4] “dimissioni per fatti concludenti: come funziona la procedura e cosa deve verificare il datore di lavoro”, Eufranio Massi, articolo pubblicato su IPSOA Quotidiano il 27.02.2025;
[5] “dimissioni per fatti concludenti: come funziona la procedura e cosa deve verificare il datore di lavoro”, Eufranio Massi, articolo pubblicato su IPSOA Quotidiano il 27.02.2025.
Per approfondire questo argomento leggi anche:
Le dimissioni del lavoratore alla luce del Collegato lavoro (più ombre che luci)