Suicidio medicalmente assistito e eutanasia, alcune domande
Si discute sulla possibilità di depenalizzare l’aiuto al suicidio, previsto come reato dall’art. 580 c.p.
La sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale ha già escluso, di fatto, la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della Legge 22 dicembre 2017, n. 219, o con modalità equivalenti, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte, infine, ha auspicato che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati.
Si è dunque giunti a una decisione giurisprudenziale storica, in quanto viene riconosciuta, per la prima volta nel diritto italiano,insieme con il diritto alla vita, “la decisione del soggetto passivo di porvi fine”.
È stato pertanto introdotto nel nostro ordinamento il suicidio, “deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale”, la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo, quando “é tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”.
La Legge n. 219 del 2017 che prevede il rifiuto, anche anticipato, delle terapie salvavita ha indubbiamente agevolato la decisione della Corte.
Il suicidio è stato finora riconosciuto dal diritto come un fatto, mai previsto come un diritto, ma, d’ora innanzi, assumerà la forma di atto giuridico, sebbene allo stato, nei limiti stabiliti dalla Corte costituzionale.
Sommario |
Alcune domande
Nel rispetto della decisione giurisprudenziale sia permessa una riflessione sul fine vita.
I fatti di cronaca, all’origine del pronunciamento del giudice delle leggi, hanno messo in luce una realtà di profondo dolore e sofferenza che accompagna tantissimi ammalati i quali, ad un certo momento della loro storia, si trovano smarriti e impossibilitati a continuare a lottare, non riuscendo più ad affrontare il male che ha invaso le loro vite. L’istinto vitale cede di fronte all’immensità del dolore e sopraggiungono propositi di morte.
Nessuno può entrare in questo abisso se non in punta di piedi, con uno sguardo di fiducia nelle cure mediche, anche palliative, e restando vicini all’ammalato con la presenza fisica e con l’assistenza necessaria.
Inevitabilmente tali vicende coinvolgono le persone congiunte, che spesso sono impreparate ad affrontare una storia di grande dolore.
Vi sono anche tante vicende esemplari di accettazione del dolore “buio”, che ci interrogano su quale sia il limite di sopportazione delle sofferenze della malattia e della vita.
Il diritto, tuttavia, non può sottrarsi a contribuire ad alleviare la sofferenza, con gli strumenti che gli sono propri e che, anzitutto, pongono l’ammalato al centro dell’attenzione dello Stato,in quanto la salute ricade tra i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 e 32, co. 1 Cost.).
È urgente, in proposito, partire dalla figura dell’ammalato nell’odierna società.
Quali sono i diritti dell’ammalato? Quanto è accettata la sofferenza nel comune vivere?
Se da una parte i progressi della ricerca scientifica e della scienza medica migliorano ogni giorno la qualità della vita, dall’altra si constata come la barriera del dolore non può essere completamente abbattuta, anche perché essa rappresenta una componente del nostro essere persone.
Si discute in proposito di diritto di vivere e di diritto di morire.
Bisogna, allora, preliminarmente, per tentare di inquadrare l’intera vicenda umana, esaminare attentamente la nozione di diritto alla vita, presupposto dalla nostra Costituzione e premessa dello sviluppo della persona (art. 3, co. 2 Cost.).
>> Leggi anche: Eutanasia, Welby e Cappato assolti in appello (contenuto disponibile anche in formato podcast audio)
Riflessioni sul tema della vita umana in campo giuridico
La vita umana è riconosciuta dall’ordinamento fin dal suo concepimento (artt. 1, co. 2; 231, 232, co. 1, 234, co. 1 e 3, 462, 643, 715, 784, 803, co. 2 c.c.; ) mentre con la nascita si acquista la piena capacità giuridica (art. 1, co. 1, c.c.).
Dunque, la vita umana è un fatto che il diritto fa proprio nell’ordinamento giuridico.
Difficile fissare la nozione di vita umana che, nella sua corsa, determina nel tempo e nello spazio situazioni giuridiche mutevoli.
Ma di tali situazioni giuridiche il diritto deve farsi carico se vuole approntare i rimedi appropriati.
La nascita, ad esempio, viene considerata in relazione (in rapporto) con la famiglia, di cui ne costituisce l’edificazione o con i beni, che potrebbero già appartenere al nascituro, o essere da questi acquistati per diritto di successione. Il neonato entra a far parte di obblighi e diritti che lo proteggono e lo inseriscono a pieno titolo nella società giuridica di cui presto sarà protagonista.
La vita umana, pertanto, si impone nel suo essere e nel suo divenire, spinta dalla libertà che gradualmente e consapevolmente verrà acquisita e che la condurrà a piena maturazione.
Molti concetti in tema di vita e di esistenza che oggi appartengono all’esperienza realmente vissuta, non lo erano nel passato. Ad esempio il considerarsi “attore della propria vita” è un concetto recente nella nostra tradizione giuridica, mentre nei decenni scorsi i minori e le donne (talvolta anche gli uomini adulti) erano totalmente affidati alla volontà dei genitori o dei tutori, anche in ordine a scelte personalissime, quali l’istruzione o il matrimonio.
Al giorno d’oggi la vita, pur inserita dentro le numerose relazioni umane e giuridiche costitutive della persona, ci appartiene in toto, anche grazie alle scelte operate dalla Costituzione, che ha messo al centro dell’interesse sociale proprio lo sviluppo della persona.
Ciascuna esperienza umana, totalmente intesa, è unica perché unici sono gli elementi di cui è composta, perché diversi sono i rapporti che la circondano, così come unici sono gli interessi che la dominano.
Pur non potendo scomporre la vita degli uomini e delle donne dagli elementi reali (i beni materiali, fondamentali per la sopravvivenza), si cercherà qui di analizzare solo alcune situazioni fondamentali personali dell’esperienza umana, al fine di rilevarne l’orizzonte finale e il patrimonio unico e insostituibile (in dogmatica, il fine e la struttura).
La vita, dunque, si costituisce in sé, per quanto sia desiderata o giunga imprevista, appare nella storia umana segnandone la sua prosecuzione.
Essa trascende i propri limiti fisici ed è costantemente orientata a superarli nel continuo desiderio di una felicità eterna o definitiva. La nostra Costituzione, diversamente da altre, non si sofferma su tale elemento di felicità, insito nella natura umana, ma traspare da essa la volontà di realizzare una società in cui il cittadino si senta realizzato nelle sue più profonde aspirazioni. Non può essere sottovalutato l’elemento spirituale nella ricerca della felicità o, più sommessamente, nell’affermazione di una società più giusta. Non si vuole introdurre qui un argomento religioso, ma solo richiamare le aspettative profonde radicate nella coscienza di ciascuno.
Descrivere la vita è compito arduo ed è esperienza nota che, per quanto riusciamo a studiarla nelle sue manifestazioni, tanti suoi aspetti naturali e spirituali sono inaccessibili.
La nostra civiltà giuridica ha fatto un salto notevole rispetto al passato, laddove la società era costruita intorno al potere o allo Stato, mentre oggi, è utile ribadirlo, per scelta costituzionale, la società è costruita intorno alla persona. Questo passaggio epocale è fondamentale per comprendere l’affacciarsi dei nuovi diritti sulla scena giuridica, perché ciascuna situazione fattuale aspira ad essere riconosciuta quale situazione giuridica dall’ordinamento statale, cosicché oggi siamo entrati nella ”età dei diritti”.
Intorno al tema della vita sono state compiute dall’ordinamento repubblicano italiano numerose scelte che riflettono il modo attuale di concepire la libertà personale.
Si diceva prima che la vita è un fatto (giuridico) e come tale ha un suo svolgimento; occorre considerare la vita umana anche da questa prospettiva, perché accettare un ordinamento giuridico democratico significa anche decidere di “viaggiare” inseriti in un sistema che ci protegge, e ci mette al riparo da scelte personali, ritenute vantaggiose inizialmente, ma che poi possono rivelarsi, per noi stessi, dannose.
È utile pertanto che tutti i convincimenti, anche profondi, della nostra esistenza si confrontino con il tessuto giuridico che si è costruito nell’esperienza sociale.
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Situazioni giuridiche di malattia
L’esperienza umana incontra, insieme alle sue meravigliose manifestazioni che la rendono straordinariamente bella, momenti di profonda incertezza e fragilità quando vengono meno i parametri fondamentali dell’esistenza: lavoro, cibo, riparo, salute.
La condizione oggettiva di fragilità, che si determina con la malattia, espone la persona ad una serie di bisogni che lo Stato, negli ultimi decenni, ha convogliato verso l’organizzazione dell’assistenza sanitaria pubblica e privata che in Italia ha raggiunto livelli di eccellenza nel contesto mondiale.
Nonostante tanti progressi nella ricerca e nell’organizzazione delle cure, la persona ammalata può sperimentare una condizione di peggioramento irreversibile della qualità della vita, che non riconosce più come tale, interrogandosi se valga la pena ancora che essa venga vissuta.
Sono gli interrogativi di cui il diritto si è dovuto occupare con i provvedimenti normativi sopra richiamati.
Il tema è molto scottante, ma non si dovrebbero trarre su di esso conclusioni e soluzioni affrettate.
La letteratura recente (per tutti, G. Fornero, Indisponibilità e disponibilità della vita. Una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell’eutanasia volontaria, UTET, 2020) ritiene oramai vincente la teoria del principio di autodeterminazione della propria vita e della propria morte, con ampie e approfondite ricerche e argomentazioni, fondamentalmente riconducibili alla considerazione e alla constatazione della piena maturità e disponibilità della condizione umana e della sua libertà.
Ma dispiace che sia stata rapidamente avvalorata una lettura eutanasica della Legge n. 219/2017, che risponde, al contrario, al principio opposto di voler conservare in capo all’ammalato la disponibilità della propria vita e delle sue cure nel rispetto della persona, cure che in un dato momento possono essere ritenute inaccettabili, e invece interpretata quale richiesta di soppressione della vita.
Basta considerare gli attuali dissensi e rifiuti di molti sull’opportunità della somministrazione del vaccino contro la pandemia (c.d. no-vax), che non impediscono però poi, alle stesse persone che hanno rifiutato di vaccinarsi una volta contagiate dal virus covid-19, di accedere a tutte le prestazioni sanitarie necessarie e disponibili affinché abbiano salva la vita.
È necessario non forzare mai lo spirito di una legge per non dover giungere a risultati disastrosi.
In verità si fa fatica ancora a individuare una situazione, per quanto dolorosissima, che faccia sorgere la necessità da parte del legislatore di predisporre un diritto di morire; ciò sia detto nel pieno rispetto di coloro che sono realmente sofferenti e che invano chiedono un sollievo, ma a cui il diritto non può rispondere togliendo ogni speranza (G. ZAGREBELSKY, 2011).
Lo Stato ha nei confronti di costoro un dovere di assistenza integrata e di sostegno anche psicologico, nonché spirituale, secondo le premesse sopra accennate, perché deve incoraggiare la vita e rafforzarla, altrimenti uscirebbe sconfitto dal suo ruolo istituzionale di tutela delle persone, con grave compromissione delle fondamenta dell’assetto costituzionale.
Alla domanda di aiuto sacrosanto proveniente da un letto di sofferenza tutta l’organizzazione scientifica e amministrativa dovrebbe corrispondere con i numerosi strumenti che il progresso può mettere in campo, a partire da una capillare diffusione delle cure contro il dolore.
L’appello alla speranza
La vita rimane un mistero a noi stessi, compreso il dolore, e il diritto è alla vita, non sulla vita, perché è bene sempre ricordarlo essa è sacra, e neanche il diritto può liberamente manipolarla.
Occorre, forse, che tutti rimaniamo al di qua della soglia del dolore, perché esso, nonostante tutto, ci interroga e ci rende uomini e donne migliori.
L’efficientismo tecnologico mal sopporta il dolore, ma esso fa parte della condizione umana, mentre alcuni Stati corrono veloci nel volerlo abolire per legge!
Non precipitiamo nell’abisso, rimaniamo uomini e donne che sanno anche soffrire. La ragione, anche in tali circostanze, rimanga serena e lucida perché la nostra vita è capace di donare anche nella malattia. Queste sono considerazioni “civili”, umane, non religiose.
La nostra Costituzione ha predisposto tutti i rimedi necessari per affrontare anche il dolore con coraggio e dignità.
La bioetica rimanga sulla soglia, non si trasformi in etica del potere!
La medicina incoraggia questa direzione; i medici sono (da sempre) contrari a percorrere strade “sbrigative” (v. Dichiarazione WMA, Resolution on euthanasia, 2019). Vinca il diritto di vivere sul diritto di morire.
La vera condizione di minorità da cui uscire è quindi l’accettazione della nostra condizione di uomini, sia detto col massimo rispetto di chi può cedere allo scoraggiamento, e non la proclamazione di essere oramai divenuti adulti, e quindi poter autodeterminare ogni scelta.
Forse la nostra vita è destinata a pulsare (e a farsi sentire) fino all’ultimo, come il nostro cuore.
