Responsabilità civile

Eutanasia, Welby e Cappato assolti in appello

Aiuto al suicidio: condotta giustificata se il paziente sopravvive grazie a un trattamento farmacologico

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L’assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato, imputati di istigazione e agevolazione all’esecuzione del suicidio di Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla, è stata confermata in appello il 29 aprile.

Secondo l’accusa i due avrebbero aiutato Trentini a realizzare il suo proposito di suicidio, accompagnandolo in una clinica svizzera e raccogliendo il denaro necessario al trattamento di fine vita (leggi anche Fine vita: guida terminologica).

La decisione è rilevante perché i giudici di primo grado avevano ritenuto giustificata la condotta di aiuto al suicidio non solo quando il paziente è tenuto in vita da una macchina, ma anche quando sopravvive grazie ad un trattamento farmacologico.

Il 29 aprile la Corte di Assise d’Appello ha dunque confermato la sen-tenza della Corte di Assise di Massa del 27 luglio 2020 che aveva assolto Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini.

L’imputazione era quella di aver rafforzato l’altrui proposito di suicidio e averne agevolato l’esecuzione.

Davide Trentini, era affetto dal 1993 da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo.

Divenuto invalido al 100% e non essendo in grado di compiere le normali attività quotidiane, Trentini voleva togliersi la vita, ma non avendo i mezzi economici per ricorrere a una clinica specializzata e non potendo spostarsi da solo, ha trovato aiuto nell’associazione gestita dai due imputati.

La sentenza di primo grado aveva assolto la Welby e Cappato ritenendo insussistente la condotta di istigazione al suicidio. Le prove avevano dimostrato infatti che il proposito di Trentini di suicidarsi fosse nato in lui in modo indipendente e fosse ben radicato già prima di incontrare i due.

Gli imputati non avrebbero dunque influito sul processo volitivo. L’istruttoria aveva anche dimostrato che già prima di conoscerli il Trentini aveva provato a mettersi in contatto con una struttura svizzera per la pratica dell’eutanasia (leggi anche: Eutanasia, questioni di fine vita) e aveva anche pagato il contributo richiesto, senza tuttavia riuscire ad ottenere la prestazione, a causa di continui ritardi da parte della struttura elvetica. Per questo fatto, i giudici avevano escluso che la Welby e Cappato avessero rafforzato il proposito di suicidio, che risultava invece già maturo e consolidato prima del loro intervento.

Diversa la motivazione della sentenza di primo grado per quanto riguarda la condotta di agevolazione all’esecuzione del suicidio. Non vi è dubbio infatti che aver accompagnato il Trentini in Svizzera e avergli procurato i soldi per ricorrere all’eutanasia abbia costituito un’agevolazione per la realizzazione del suo proposito. Tuttavia gli imputati sono andati assolti per il riconoscimento della nuova scriminante introdotta dalla pronuncia della Corte Costituzionale numero 242 del 2019.

Come si ricorderà, nel famoso caso Cappato, i giudici di legittimità avevano dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi ha agevolato l’esecuzione del proposito suicida di una persona tenuta in vita da “trattamenti di sostegno vitale” e “affetta da una patologia irreversibile” fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili.

L’incostituzionalità dell’articolo 580 del codice penale deriva a sua volta dall’introduzione della Legge sul testamento biologico che si fonda sull’autodeterminazione del paziente e sul suo diritto a rifiutare di ricevere i trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza. La configurabilità della nuova scriminante introdotta dalla Corte Costituzionale, richiede la presenza di alcuni requisiti indispensabili, che i giudici hanno ritenuto dimostrati nel caso di Davide Trentini. Era stato accertato da un medico che la patologia fosse irreversibile e che il malato patisse una grave sofferenza fisica o psicologica. Era stato verificato in ambito medico che il paziente dipendeva da trattamenti sanitari indispensabili per la sopravvivenza. I medici avevano appurato che il malato era capace di prendere decisioni libere e consapevoli ed aveva manifestato in modo chiaro ed univoco la propria volontà. Infine, era stato adeguatamente informato il paziente delle possibili soluzioni alternative, con riguardo all’accesso a cure palliative.

Il passaggio certamente innovativo del caso Trentini ha riguardato il fatto che, a differenza del caso Welby, o del caso Englaro, qui il paziente non era tenuto in vita da una macchina. La Corte Costituzionale tuttavia non aveva fatto riferimento esplicito nella sentenza del 2019 ai trattamenti artificiali, sebbene il caso deciso dalla corte riguardasse una persona tenuta in vita da un respiratore, ma aveva usato la più ampia definizione di “trattamenti di sostegno vitale”.

E proprio partendo da tale ampia nozione, i giudici della Corte di Assise di Massa hanno ritenuto che non solo la dipendenza dalle macchine, ma anche il trattamento farmacologico prolungato senza il quale si verificherebbe la morte del paziente, possa essere considerato un trattamento di sostegno vitale e dar luogo quindi alla scriminante invocata.

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