Crisi d'impresa

Cessione dei beni e liquidazione nel concordato preventivo

Articolo, tratto dalla rivista Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, Ipsoa, segnalazione 07/11/2018

Il commento esamina lo stato della giurisprudenza in una serie di questioni che riguardano il concordato preventivo per cessione dei beni, con particolare riguardo alla fase esecutiva e alla figura del liquidatore giudiziale, non mancando di esprimere il convincimento che l’istituto, pur sottoposto ad una serie di innovazioni, ora normative ora interpretative, che ne hanno largamente limitato l’utilizzo, rimane uno degli istituti di maggiore impiego.

Cessione dei beni e liquidazione sono i due cardini del concordato preventivo che Carlo Trentini ha affrontato in un approfondimento in materia fallimentare. Il dossier è ripreso dalla rivista Il fallimento e le altre procedure concorsuali edito da Ipsoa che offre un approfondimento completo dei profili sostanziali e processuali della materia fallimentare.

Di seguito pubblichiamo un estratto integrale della rivista.

Sommario:

Concordato preventivo per cessione dei beni e possibilità di escludere dalla liquidazione uno o più beni
Destinazione della c.d. eccedenza del ricavato della liquidazione dei beni ceduti
Natura della fase esecutiva del concordato preventivo
Natura liquidatoria dei soli atti successivi all’omologazione
Criteri di esecuzione
Accertamento dei crediti legittimati a partecipare al concorso
Legittimazione processuale nei giudizi di accertamento dei crediti
Decorso degli interessi
Divieto di azioni esecutive individuali
Azione sociale di responsabilità ed azione dei creditori sociali
La figura del liquidatore giudiziale
Nel concordato con cessione dei beni è sempre necessaria la nomina del liquidatore giudiziale?
Designazione del liquidatore
Compenso
La prescrizione nella fase esecutiva
Provvedimenti di chiusura

Concordato preventivo per cessione dei beni e possibilità di escludere dalla liquidazione uno o più beni

L’ammissibilità di un concordato preventivo per cessione dei beni in cui il debitore non ponga a disposizione dei creditori l’intero suo patrimonio, ma se ne riservi una parte (solitamente, la casa di abitazione, ma talora anche l’azienda o almeno un suo ramo) è negata dalla giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. 18 marzo 2008, n. 7263, in Mass. Giust. civ., 2008, 430 e Cass. 19 giugno 2006, n. 20259, in Giur. comm., 2007, II, 1171. Nella motivazione della prima delle due sentenze citate si evidenzia che ragioni d’interesse pubblico giustificano la possibilità della scelta tra la liquidazione e il concordato (“nel senso che dalle scelte di interesse pubblico consegue la possibilità di diversi risultati in tema di soddisfacimento dei creditori”), ma che tali ragioni non consentono peraltro “il sacrificio senza indennizzo delle loro posizioni, con la sottrazione di alcuni beni alla garanzia generica ex art. 2740 c.c.”; quindi, se è possibile ammettere diversi esiti liquidatori (in senso ampio), tale possibilità si deve riconoscere “in ogni caso però senza sottrazione di attivo” (tra virgolette nel testo della motivazione). Sempre in tal senso, per la giurisprudenza anteriore alla riforma, cfr. Trib. Bari 22 luglio 1975, in Giur. comm., 1976, II, 864 e Trib. Bari 14 luglio 1975, in Giur. it., 1976, I, 2, 435. Un ulteriore argomento a favore della tesi dell’inammissibilità è tratto dalla disciplina del concordato in continuità, affermandosi che soltanto nel caso dell’art. 186 bis l.fall. può ammettersi, ai fini della continuità, la conservazione dell’azienda (Trib. Roma 25 luglio 2012, in questa Rivista, 2013, 748 e in www.ilcaso.it, pubb. 30 luglio 2012).

Del pari, è stata ritenuta inammissibile, sempre in quanto contraria all’art. 2740 c.c., la proposta concordataria che, nell’ambito di un c.d. concordato di gruppo, preveda di destinare l’eccedenza della cessione parziale al soddisfacimento dei creditori di altre società appartenenti allo stesso gruppo (App. Roma 15 marzo 2013, in Giur. mer., 2013, 1817).

Destinazione della c.d. eccedenza del ricavato della liquidazione dei beni ceduti

Nel concordato per cessione dei beni (ferma restando la regola, introdotta nel 2015, circa l’obbligo che il debitore deve assumersi, di “assicurare” la soddisfazione dei creditori chirografari nella misura non inferiore al 20% del loro credito), il debitore s’impegna a mettere a disposizione il suo patrimonio al fine di consentirne la soddisfazione nella misura percentuale proposta (o, secondo l’attuale disposizione dell’art. 160, ultimo comma, l.fall., assicurata). Ma, poiché l’obbligazione consiste, in prima battuta, nel trasferimento ai creditori della disponibilità dei beni ai fini della loro liquidazione, nell’ipotesi in cui, per qualsiasi ragione, il ricavato dell’esecuzione risulti superiore alla percentuale proposta, l’eventuale eccedenza va distribuita tra i creditori, ad ulteriore soddisfazione delle loro ragioni rimaste insoddisfatte (Cass. 14 marzo 2014, n. 6022, in www.ilcaso.it, pubb. 9 giugno 2014; Trib. Milano 15 dicembre 2016, in www.ilfallimentarista.it, pubb. 3 febbraio 2017). A tale conclusione la giurisprudenza perviene anche in virtù dell’argomento secondo cui, poiché la fase esecutiva del concordato preventivo può ricondursi ad un sub-genus di procedimento di esecuzione per espropriazione (testualmente: “è riconducibile ad una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato) al pari della procedura fallimentare”: Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19506, in Foro it., 2008, I, 3149 e in www.ilcaso.it, pubb. 7 settembre 2008), il ricavato della liquidazione va ripartito tra i creditori, al di là delle previsioni originarie espresse nella proposta concordataria (Cass. 14 marzo 2014, n. 6022, cit.).

Natura della fase esecutiva del concordato preventivo

La giurisprudenza afferma che l’esecuzione del concordato preventivo non costituisce una fase della procedura di concordato preventivo, in senso proprio, posto che, come si ricava dalla stessa previsione normativa dell’art. 181 l.fall., la procedura s’inizia con il deposito del ricorso e si conclude con il decreto di omologazione (Trib. Pistoia 31 marzo 2010, in www.ilcaso.it, pubb. 3 agosto 2010). Pertanto, il tempo dell’esecuzione del concordato non va computato ai fini della disciplina in tema di ragionevole durata del processo, perché dovrebbe escludersene la stessa natura giudiziaria (Cass. 8 maggio 2012, n. 7021, in Mass. Giust. civ., 2012, 576).

Alquanto contraddittoriamente, allorché si occupa espressamente del tema della durata di esecuzione del piano, la giurisprudenza appare rigorosa circa l’esigenza di rispettare la regola per cui il tempo di esecuzione del concordato non può protrarsi, d’ordinario, per più di cinque o, al massimo, sei anni; in tal senso cfr. Trib. S. Maria Capua Vetere 15 maggio 2014, in www.ilcaso.it, pubb. 26 maggio 2014 (in cui il tempo di esecuzione del piano era di nove anni; il termine massimo viene indicato in sei); Trib. Siracusa 15 novembre 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 4 dicembre 2013 (che ha dichiarato inammissibile un piano concordatario con termini di pagamento di dieci anni); Trib. Modena 13 giugno 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 13 giugno 2013 (in cui il tempo previsto era di cinque anni); Trib. Bari 3 giugno 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 22 luglio 2013 (in cui è stato dichiarato inammissibile una domanda concordataria il cui tempo di adempimento era indicato come imprevedibile).

Per altro verso, la giurisprudenza è chiara nell’affermare che la fase esecutiva del concordato preventivo è inquadrabile, quanto meno per ciò che concerne i principî ispiratori della disciplina dell’istituto, al genus dei procedimenti di esecuzione forzata (Cass. 14 marzo 2014, n. 6022, cit.; Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19506, cit.); donde l’applicabilità, in via analogica, di una serie di regole specificamente dettate per i procedimenti esecutivi; in particolare, quelle in tema di offerta in aumento di sesto (ex art. 584 c.p.c., richiamato dall’art. 105 l.fall.), nonché in tema di regime dell’impugnabilità dei provvedimenti del tribunale ai sensi dell’art. 617 c.p.c. (Cass. 18 febbraio 2009, n. 3903, in Mass. Giust. civ., 2009, 260); parimenti, Cass. 14 marzo 2011, n. 5993, in Mass. Giust. civ., 2011, 410 e in Giur. comm., 2013, II, 883 ha ritenuto, in via analogica, che legittimamente potesse impugnarsi in sede di reclamo il provvedimento con cui il giudice delegato aveva consentito, in un concordato preventivo con cessione dei beni, in difformità rispetto al decreto di omologazione, che una parte del prezzo fosse pagata con compensazione del credito.

In ogni caso, i provvedimenti cosiddetti esecutivi, con ciò intendendosi i provvedimenti presi dall’autorità giudiziaria nella fase esecutiva del concordato per regolare le concrete modalità della liquidazione e dell’esecuzione concordataria in genere, non possono incidere su diritti soggettivi di creditori o di terzi (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23271, in Guida dir., 2006, 46, 62 (s.m.); Cass. 18 giugno 2008, n. 16598, in www.ilcaso.it, pubb. 9 aprile 2010); tale regola costituisce applicazione del più ampio principio per cui le controversie relative all’accertamento del diritto dei creditori, di partecipare al concorso, nel concordato preventivo, e ogni altra controversia inerente ai diritti soggettivi non direttamente regolati dalla disciplina propria della procedura concorsuale, sono sottoposte alle norme di diritto comune e i relativi provvedimenti non possono che assumersi ad esito di procedimenti di cognizione ordinaria (Cass. 27 ottobre 2006, n. 23272 e Cass. 27 ottobre 2006, n. 23271, in Mass. Giust. civ., 2006, 2517); più ampiamente, circa il tema dell’accertamento dei crediti nella fase esecutiva, v. infra.

Le vendite eseguite in corso di concordato preventivo sono da qualificarsi alla stregua di vendite coattive (Cass., Sez. trib., 6 giugno 2007, n. 13217, in Giust. civ., 2008, I, 171). Da tale qualificazione discendono, a cascata, una serie di regole applicative, proprie della liquidazione forzata: a) sono inapplicabili alle vendite della fase esecutiva concordataria le norme in tema di prelazione, giacché esse di regola contrastano con le finalità della liquidazione coattiva; b) in particolare, sono inapplicabili le norme in tema di prelazione a favore del conduttore previste dalla L. 27 luglio 1978, n. 392, in materia di locazione d’immobili urbani (Cass. 18 maggio 2012, n. 7931, in Mass. Giust. civ., 2012, 641; Cass. 14 gennaio 1994, n. 339, in Mass. Giust. civ., 1994, 30); peraltro, in taluni casi, in ossequio ad interessi ritenuti sovraordinati, perché presidiati da garanzia costituzionale, si è affermata la prevalenza di tutele considerate superiori a quelle assicurate dalle regole della liquidazione forzata: così, in particolare, la prelazione agraria è stata ritenuta operativa, anche in pregiudizio delle regole sulla liquidazione forzata, dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 2 marzo 2010, n. 4935, in Giust. civ., 2011, 2689 e Cass. 15 aprile 2008, n. 9872, in Juris Data) (ma non dalla giurisprudenza di merito: App. Torino 27 aprile 2004, in questa Rivista, 2004, 1057; Trib. Perugia 11 settembre 1997, in Riv. giur. umbra, 2000, 23), invocandosi al riguardo l’argomento che la tutela del ceto creditorio non può prevalere sulla tutela dell’interesse, costituzionalmente riconosciuto, della formazione della proprietà diretto-coltivatrice; c) poiché è pacifico che l’art. 2922 c.c. trova applicazione anche alle vendite in sede fallimentare, e poiché, parimenti, le vendite in sede di concordato preventivo debbono essere assimilate alle vendite fallimentari (Cass. 18 luglio 1996, n. 6478, in questa Rivista, 1997, 383), vale anche per le vendite dell’esecuzione concordataria la disposizione dell’art. 2922 c.c., a tenore del quale non si applicano alle vendite coattive (fallimentari) gli artt. da 1490 a 1497 c.c. (Cass. 4 luglio 2012, n. 11151, in Guida dir. 2012, 37, 67 (s.m.); Cass. 14 ottobre 2010, n. 21249, in questa Rivista, 2011, 197 e in Resp. civ. prev., 2011, 1571; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4085, in Mass. Giust. civ., 2005, 482; Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, in Giust. civ., 1995, I, 917; Cass. 3 dicembre 1983, n. 7233, in Mass. Giust. civ., 1983, 2463; Trib. Bari 19 marzo 2012, in Juris Data); sono quindi inammissibili le azioni edilizie (redhibitoria e quanti minoris), ma non le azioni che si basano sul vizio cosiddetto di aliud pro alio (Cass. 2 aprile 2014, n. 7708, in Juris Data; Cass. 11 ottobre 2013, n. 23140, in Riv. not., 2013, 1385; Cass. 4 luglio 2012, n. 11151, cit.; Cass. 14 ottobre 2010, n. 21249, cit.; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4085, cit.; Cass. 9 ottobre 1998, n. 10015, in Mass. Giust. civ., 1998, 2048; Cass. 21 dicembre 1994, n. 11018, cit.; Cass. 3 ottobre 1991, n. 10320, in Giur. it., 1992, I, 1, 715; Trib. Larino 8 febbraio 2005, in Juris Data); d) in via analogica con la previsione contenuta nell’art. 586 c.p.c. in tema di esecuzione individuale e dall’art. 108, comma 2, l.fall., in tema di liquidazione fallimentare, ritenuta la natura giurisdizionale di questa fase (anche in questo caso, con qualche contraddittorietà con affermazioni compiute ad altri fini), la giurisprudenza (Trib. Messina 8 maggio 2012, in www.ilcaso.it, pubb. 20 marzo 2013) ha riconosciuto al giudice delegato il potere di disporre la cancellazione delle iscrizioni ipotecarie e delle trascrizioni dei pignoramenti sui beni immobili oggetto di trasferimento in sede esecutiva; e) simmetricamente al riconoscimento, anche nel concordato preventivo, del potere, in capo al giudice delegato, di disporre la sospensione della vendita, in applicazione analogica dell’art. 108 l.fall., deve ammettersi l’interesse e la legittimazione all’imprenditore in concordato preventivo ad impugnare il decreto di trasferimento emesso nel corso della fase liquidatoria (Cass. 14 gennaio 2015, n. 491, in Guida dir., 2015, 18, 69, s.m.).

Infine, il richiamo operato dall’art. 182 l.fall. agli articoli da 105 a 108 ter “in quanto compatibili” ha condotto ad affermare l’applicabilità, in primis, del disposto dell’art. 105 l.fall., che ammette il pagamento di determinati crediti mediante accollo, a condizione che non sia violata la par condicio creditorum; simmetricamente, è stata ritenuta inammissibile la proposta concordataria prevedente l’accollo di alcuni (e non di tutti) i crediti dei lavoratori dipendenti (Trib. Roma 24 maggio 2012, in Dir. fall., 2012, II, 702).

Nonostante il richiamo alle norme specificamente dettate in tema di esecuzione fallimentare, l’inciso relativo alla compatibilità ha portato la giurisprudenza ad escludere che il commissario giudiziale possa intervenire nelle procedure esecutive pendenti (Trib. Reggio Emilia 18 aprile 2012, in www.ilcaso.it, pubb. 2 maggio 2012): l’assimilazione di regime rispetto al fallimento risulta inibita dalla diversa natura dell’organo del commissario giudiziale rispetto al curatore fallimentare, posto che, a differenza di quest’ultimo, al commissario non sono attribuiti poteri di amministrazione e disposizione del patrimonio del debitore, restando, sia pure attenuati, tali poteri in capo al debitore.

Natura liquidatoria dei soli atti successivi all’omologazione

Di regola gli atti di liquidazione del patrimonio del debitore concordatario possono compiersi soltanto successivamente all’omologazione; ciò corrisponde ad una chiara esigenza, di evitare che, prima ancora che il concordato sia omologato, il patrimonio del debitore sia disperso o comunque ridotto, pregiudicando così, potenzialmente, l’eventuale soddisfazione mediante l’alternativa procedura fallimentare.

Ciò non di meno, può accadere che, principalmente per ragioni d’urgenza, possa procedersi alla vendita di beni del patrimonio del debitore (si pensi a merce deperibile, ovvero alla conclusione di contratti che diversamente potrebbero non più concludersi). In siffatti casi, gli atti di dismissione e realizzazione del patrimonio del debitore non sono ricompresi nel novero degli atti di liquidazione, e pertanto non sono assoggettati alla relativa disciplina.

Essi sono, piuttosto, qualificati quali atti di straordinaria amministrazione e, come tali, esigono l’autorizzazione del giudice delegato, previo parere del commissario giudiziale (Trib. Treviso 28 giugno 2017, in www.ilfallimentarista.it; Trib. Bergamo 1° dicembre 2011, in Unijuris.it, pubb. 7 dicembre 2011). Ne segue che, poiché appunto gli atti compiuti anteriormente all’omologazione, pur finalizzati alla vendita di beni costituenti il patrimonio del debitore, non sono qualificabili in senso stretto come atti di liquidazione, bensì rientrano nel novero degli atti di straordinaria amministrazione, l’eventuale impugnazione di tali atti va compiuta attraverso lo strumento del reclamo a norma dell’art. 26 l.fall., il cui impiego è consentito in via analogica, e non trova regolamento nella disciplina dell’art. 108 l.fall. (Trib. Bergamo 1° dicembre 2011, cit.).

Criteri di esecuzione

La legge non stabilisce le modalità attraverso le quali l’esecuzione debba essere realizzata.

In via pretoria, i provvedimenti di omologazione prevedono spesso una serie cospicua di obblighi in capo al liquidatore, con prescrizioni analitiche, tralaticie e talora affette da un eccesso di acribia.

Così, il liquidatore è spesso onerato di una pluralità di adempimenti ad instar curatoris: redigere il programma di liquidazione; presentare rendiconti semestrali anche relativamente alle attività svolte; provvedere ai pagamenti solo previa predisposizione di piani di riparto da sottoporre in via anticipata al parere del comitato dei creditori e del commissario giudiziale; all’esito della liquidazione, rendere il conto finale della gestione a norma del combinato disposto degli artt. 38 e 116 l.fall., etc.; per una elencazione casistica di tutti tali adempimenti (ed altri ancora), vedi Trib. Roma 11 gennaio 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 4 febbraio 2013; Trib. Benevento 10 ottobre 2012, in www.ilcaso.it, pubb. 28 gennaio 2013; Trib. Firenze 9 maggio 2012, in www.ilcaso.it, pubb. 9 luglio 2012; Trib. Arezzo 24 aprile 2012, in Giur. mer., 2013, 610 (dove le prescrizioni circa le modalità di liquidazione, singolarmente distinte in punti separati, arrivano al numero di diciotto); Trib. Mantova 22 luglio 2010, in www.ilcaso.it, pubb. 27 luglio 2010 (con una serie di prescrizioni analitiche circa obblighi informativi e di contabilizzazione relativamente alla gestione dell’azienda).

In termini generali, il liquidatore del concordato preventivo dovrà quindi fare applicazione sia delle previsioni del piano, sia delle prescrizioni impartitegli dal tribunale nel decreto di omologazione, ovviamente nel rigoroso rispetto dei principî generali e delle norme imperative che regolano la gestione di patrimoni altrui.

La giurisprudenza ha esaminato, con riferimento a particolari ipotesi di modalità attuative del piano concordatario, l’ipotesi della costituzione di un trust cui la società debitrice o anche un terzo abbiano già conferito ovvero intendano conferire i beni necessari per l’esecuzione del concordato ovvero a garanzia di questa (Trib. Ravenna 6 marzo 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 29 aprile 2013; Trib. Pescara 11 ottobre 2011, in www.ilcaso.it, pubb. 24 ottobre 2011; Trib. Napoli 19 novembre 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, 56; Trib. Mondovì 16 settembre 2005, in Juris Data; Trib. Parma 3 marzo 2005, in Riv. not., 2005, 851). Va precisato che, se in linea di massima l’attuazione del concordato mediante la costituzione di un trust può a giusta ragione ritenersi non incompatibile con le regole del concordato preventivo e trovare quindi legittimazione nei principî dell’autonomia negoziale - il terzo non può, peraltro, pregiudicare le ragioni dei suoi creditori personali, i quali hanno conseguentemente facoltà d’impugnare per revocatoria ordinaria il negozio mediante il quale i beni del loro debitore sono stati posti a disposizione dei creditori di altro soggetto, per il buon fine del concordato di questi (Trib. Napoli 19 novembre 2008, cit.).

Se il trust può legittimamente essere previsto come strumento attuativo del piano concordatario (pur accompagnato da una serie di cautele), non è consentito il suo utilizzo in chiave “preventiva”; in altri termini, è vietato prevedere la costituzione di un trust liquidatorio come strumento surrettizio per evitare la dichiarazione di fallimento (ovvero la liquidazione per il tramite di altra procedura concorsuale): in presenza dello stato d’insolvenza (o di crisi), l’atto del debitore finalizzato alla segregazione del proprio patrimonio non è riconoscibile dall’ordinamento italiano e il tribunale fallimentare ne può dichiarare l’inefficacia (App. Catania 16 novembre 2012, in Giust. civ., 2013, I, 2597).

Accertamento dei crediti legittimati a partecipare al concorso

L’inesistenza di una fase di accertamento dei crediti nel concordato preventivo (fase non prevista né nel procedimento di omologazione né nella successiva fase, di esecuzione), comporta, necessariamente, che, intervenuta l’omologazione, le eventuali controversie in ordine all’esistenza, alla quantificazione e allo stesso rango dei crediti da soddisfarsi, debbano trovare soluzione secondo le regole generali di diritto comune, e quindi mediante ordinari giudizi di cognizione (Trib. Siracusa 11 novembre 2011, in www.ilcaso.it, pubb. 7 dicembre 2011; App. L’Aquila 8 settembre 2011, in Juris Data), non essendo escluso che l’accertamento del credito possa attuarsi attraverso lo strumento del procedimento monitorio. Da tale principio, la corte regolatrice (Cass. 18 giugno 2008, n. 16598, cit.) ha tratto l’ulteriore regola secondo cui, una volta intervenuta l’omologazione del concordato, al giudice delegato non compete alcuna potestà decisoria in ordine alle controversie relative a diritti di credito o ad altre pretese dei creditori, così come di terzi interessati, nei confronti del debitore, appunto perché tutte tali controversie sono devolute agli organi della giurisdizione ordinaria; gli eventuali provvedimenti in materia che fossero comunque assunti dal giudice delegato, siccome incidenti su diritti soggettivi, sono ricorribili per cassazione.

Ai pagamenti il liquidatore giudiziale del concordato preventivo provvederà, di regola, sulla base degli elenchi formati nel corso della fase che ha preceduto l’omologazione, ovvero (se così avrà disposto, in sede di omologazione, il tribunale) sulla base di elenchi e stati passivi (impropriamente chiamati) che il liquidatore avrà formato, dopo l’omologazione, in forza delle istruzioni impartitegli con il decreto di omologazione. Ma gli elenchi, redatti prima dell’omologazione, sono, fondamentalmente, finalizzati al calcolo delle maggioranze per l’approvazione del concordato; essi, quindi - in considerazione della natura amministrativa degli stessi e della circostanza che non sono formati nel rispetto delle regole del contraddittorio e assolvono a finalità ben diverse da quella di determinare il diritto di partecipare al concorso - non sono vincolanti. Né sono vincolanti gli elenchi e i cosiddetti stati passivi formati successivamente all’omologazione sia pure in ossequio alle disposizioni del decreto di omologazione e per quanto la finalità degli stessi sia quella di stabilire una graduatoria fra i creditori e di quantificare la misura del loro credito: anche tali elenchi, siccome non formati ad esito di un procedimento giurisdizionale contenzioso disciplinato secondo le regole del contraddittorio, non hanno natura vincolante: il liquidatore, quand’anche abbia egli stesso creato detti elenchi, può poi mutare opinione e quindi deliberare di non procedere a questo o a quel pagamento o, viceversa, pur avendo negato precedentemente un credito o una prelazione, può poi andare di diverso avviso (Cass. 17 giugno 1995, n. 6859, in questa Rivista, 1996, 50; per la giurisprudenza posteriore alla riforma del 2005, cfr. Trib. Bassano del Grappa 28 maggio 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 3 giugno 2013); il potere del liquidatore di modificare la propria posizione trova limite soltanto negli accertamenti che siano intervenuti in sede giudiziale.

A tale proposito vale la pena sottolineare come al creditore, cui non sia riconosciuto il diritto di partecipare al concorso (ovvero cui venga riconosciuto in misura inferiore a quella pretesa), non è dato altro mezzo di tutela se non quello dell’accertamento del proprio credito nelle forme ordinarie, dovendo quindi egli, eventualmente, attendere la definitività dell’accertamento e con la capitale precisazione ch’egli non ha alcuna facoltà di ottenere la sospensione della fase esecutiva (Trib. Siracusa 11 novembre 2011, cit.), ciò che, come ben s’intende, può comportare conseguenze assai difficilmente riparabili se il liquidatore (pur essendovi, in linea di principio, tenuto) non operi accantonamenti in attesa della definizione dei giudizi di accertamento.

Legittimazione processuale nei giudizi di accertamento dei crediti

La giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, ha affermato la regola, chiara, secondo cui, nei giudizi di accertamento dei crediti, la legittimazione passiva compete al debitore concordatario (da ultimo, cfr. Cass. 10 maggio 2017, n. 11460, in Guida dir., 2017, 26, 86; Trib. Lucca 8 luglio 2016, in Juris Data; nei giudizi tributari, cfr. Cass., Sez. trib., 28 luglio 2017, n. 18823, in Unijuris.it, pubb. 22 novembre 2017); il liquidatore giudiziale non è litisconsorte necessario tranne il caso in cui sia stata proposta domanda di condanna ovvero nell’ipotesi in cui la pronunzia richiesta assuma rilievo ai fini della liquidazione (Cass. 3 aprile 2013, n. 8102, in Mass. Giust. civ., 2013, rv. 625646; Cass. 30 luglio 2009, n. 17748, in www.ilcaso.it, pubb. 1° agosto 2010; App. L’Aquila 8 settembre 2011, cit.) (come nel caso, ad esempio, che s’intenda accertare la natura privilegiata di un credito appostato dal liquidatore nell’elenco dei chirografari).

In ogni caso, il liquidatore giudiziale ha facoltà di dispiegare intervento adesivo (Cass., Sez. trib., 28 luglio 2017, n. 18823, cit.; Cass. 4 settembre 2015, n. 17606, in Mass. Giust. civ., 2015, rv. 636286; Cass. 3 aprile 2013, n. 8102, cit.); e, nel caso in cui egli intervenga, gli va riconosciuta la qualità di litisconsorte necessario nei successivi gradi del giudizio (Cass. 3 aprile 2013, n. 8102, cit.); al liquidatore giudiziale, che non abbia partecipato al precedente grado del giudizio, non è riconosciuto il potere di ricorrere per cassazione avverso la decisione, posto che egli non è successore, a titolo particolare o universale, del diritto controverso; egli subentra al debitore soltanto nell’amministrazione e gestione dei beni ceduti e, più in generale, nelle questioni che attengono alla liquidazione (Cass. 12 gennaio 2017, n. 681, in www.ilcaso.it, pubb. 29 aprile 2017).

Anche relativamente alla legittimazione attiva, l’orientamento più recente della giurisprudenza è nel senso di affermare ch’essa permane in capo al debitore, sulla base della considerazione che, anche nel caso di concordato con cessione dei beni, la proprietà degli stessi rimane in capo al debitore concordatario che conserva dunque il potere di esercitare le azioni a presidio delle attività cedute (Cass. 10 maggio 2017, n. 11460, cit.; Cass. 5 ottobre 2016, n. 19923, in www.ilfallimentarista.it; Cass. 8 maggio 2013, n. 10724, in Mass. Giust. civ., 2013, rv. 626420; Trib. Livorno 1° luglio 2015, in Juris Data; Trib. Bari 14 novembre 2013, in Juris Data; contra Trib. Roma 10 luglio 2013, in Juris Data, secondo cui, nonostante la proprietà dei beni oggetto della cessione resti in capo al debitore, pure, trasferendosi i poteri di amministrazione al soggetto incaricato della liquidazione, a questi compete l’esercizio delle azioni a tutela degli stessi).

Decorso degli interessi

A norma dell’art. 169 l.fall., nel concordato preventivo, oltre ad altre disposizioni della legge fallimentare, trova applicazione, specificamente, anche l’art. 55 l.fall., e segnatamente la norma per cui l’apertura della procedura concorsuali sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, agli effetti del concorso, fino alla chiusura della procedura, fatta salva la regola speciale dettata dallo stesso articolo per i crediti prelatizi.

Atteso che, a norma dell’art. 181 l.fall., “la procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione”, il decorso degli interessi riprende dalla data dell’omologazione e, nel caso di successiva dichiarazione di fallimento, il creditore potrà chiedere l’ammissione al passivo del suo credito comprensivo degli interessi maturati successivamente all’omologa, secondo le regole generali (Cass. 7 giugno 2007, n. 13357, in Mass. Giust. civ., 2007, 1133).

Divieto di azioni esecutive individuali

A norma dell’art. 168 l.fall., sono inibite le azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore “dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione del concordato preventivo diventa definitivo”. Parrebbe di doverne desumere che, intervenuta l’omologazione, il divieto viene a cessare; ma la norma è costantemente interpretata, con specifico riferimento al concordato con cessione dei beni, nel senso che il divieto persiste anche dopo l’omologazione, rendendo così improponibili le azioni intraprese successivamente ed improcedibili quelle già intraprese prima, e ciò sulla base della considerazione che i beni oggetto della cessione ai creditori sono vincolati alla loro soddisfazione e la disponibilità sugli stessi è limitata ai soli atti che siano funzionali all’esecuzione del concordato (Trib. Modena 9 febbraio 2006, in Juris Data; Trib. Sulmona 27 febbraio 2008, in Giur. mer., 2008, 2560; contra Trib. Milano 17 dicembre 2012, in www.ilcaso.it, pubb. 6 maggio 2013.).

Azione sociale di responsabilità ed azione dei creditori sociali

Se l’art. 146 l.fall. è inequivoco nell’affermare la legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, i componenti degli organi di controllo, i direttori generali ed i liquidatori della società fallita, nessuna norma espressa risulta dettata relativamente al concordato preventivo, nemmeno nel caso di concordato per cessione dei beni. Di più, l’art. 2394 bis c.c., introdotto dalla riforma societaria entrata in vigore il 1° gennaio 2004, che reca la rubrica “Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali”, menziona le procedure di “fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria” senza fare cenno della procedura di concordato preventivo e men che meno stabilendo a chi competa in questo caso la legittimazione.

La giurisprudenza non si palesa unanime ancorché tenda ad affermarsi come prevalente la tesi secondo cui, nel caso di concordato con cessione dei beni, l’azione di responsabilità compete al liquidatore giudiziale, in quanto tra i beni oggetto della cessione, indipendentemente dall’espressa previsione degli stessi nel piano e nella proposta concordataria, deve ritenersi compreso anche il credito risarcitorio derivante dall’azione di responsabilità (Trib. Trento 10 giugno 2016, in www.ilcaso.it, pubb. 14 luglio 2016; Trib. Firenze 9 maggio 2012, cit., pur ammettendo la legittimazione concorrente della società; Trib. Roma 20 gennaio 1996, in Società, 1996, 913; contra Trib. Milano 19 luglio 2011, in www.ilcaso.it, pubb. 19 settembre 2011); a tale riguardo si aggiunge che, nel caso in cui gli organi sociali siano divenuti praticamente inoperanti, si prescinde dalla loro deliberazione (Trib. Roma 20 gennaio 1996, cit.) o, più direttamente, che, nel caso di concordato preventivo con cessione dei beni, in deroga alla regola generale dell’art. 2393 c.c., non costituisce condizione di procedibilità la delibera dell’assemblea dei soci (Trib. Trento 10 giugno 2016, cit.).

La giurisprudenza ha parimenti affermato che l’assuntore del concordato preventivo, nella sua qualità di successore a titolo particolare, deve considerarsi legittimato a dispiegare intervento nel giudizio di responsabilità promosso dal liquidatore civile, e tanto anche ai sensi dell’art. 2394 c.c., in rappresentanza della massa dei creditori (Cass., SS.UU., 23 febbraio 2010, n. 4309, in www.ilcaso.it, pubb. 1° agosto 2010).

Diversamente, l’azione dei creditori sociali può esercitarsi anche in corso di concordato preventivo e dopo la sua omologazione: per l’ammissibilità dell’azione dei creditori sociali nonostante il concordato preventivo e per la conservazione della legittimazione in capo ai creditori, cfr. Trib. Piacenza 12 febbraio 2015, in www.ilcaso.it, pubb. 26 febbraio 2015. Tale interpretazione va condivisa, trattandosi di un credito di natura risarcitoria che compete ai creditori e, più precisamente, ai singoli creditori e nella misura in cui ciascuno di essi sia stato danneggiato; e che, pertanto, non interessando il patrimonio sociale, non interferisce con la liquidazione concordataria.

La figura del liquidatore giudiziale

È fuori discussione che le figure del curatore fallimentare e del liquidatore giudiziale del concordato preventivo non sono in alcun modo assimilabili, stante la radicale diversità delle attribuzioni e dei poteri loro assegnati dalla legge (cfr. Cass. 8 maggio 2013, n. 10724, cit., che sottolinea la differenza tra i due organi, anche per quanto attiene alla legittimazione processuale, che il debitore conserva nel concordato preventivo). Da tale, piana ed incontroversa, considerazione deriva, con pari chiarezza, che non può farsi applicazione al liquidatore del concordato preventivo delle disposizioni previste, dalla legge fallimentare, in tema di responsabilità del curatore fallimentare e, tanto meno, delle disposizioni sempre in materia fallimentare e penale relative ai reati propri degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci ed in particolare dei liquidatori di società, questa affermazione valendo, bene è chiaro, soprattutto per i liquidatori civili di cui all’art. 2489 c.c. (Cass. Pen., SS.UU., 30 settembre 2010, n. 43428, in Riv. pen., 2011, 150; in Foro it., 2011, III, 149; nonché in Giur. comm., 2012, 74).

È invece controverso se al liquidatore giudiziale debba riconoscersi la qualificazione di mandatario dei creditori, come, impiegando risalente tesi, è tuttora dato leggere in sentenze sia di legittimità che di merito (Cass. 8 maggio 2012, n. 7021, cit., specificamente per trarne la conclusione che egli non è un organo giurisdizionale e che la sua attività non va quindi considerata come ricompresa in una procedura giudiziale, ai fini del computo della durata del giudizio in materia di ragionevole durata del processo; Trib. Mantova 27 gennaio 2006, in www.ilcaso.it, doc. n. 269/2006); ovvero se, come in effetti pare preferibile, il liquidatore giudiziale del concordato con cessione dei beni eserciti un munus publicum, un incarico di natura pubblica, in quanto coinvolgente interessi collettivi, sulla base di un provvedimento dell’autorità giudiziaria (come nel caso dell’amministratore di sostegno, del tutore e del curatore dell’eredità giacente) (cfr., specificamente per un questione relativa alla legittimazione passiva in tema di ordinanze previste dall’art. 192 del Codice dell’ambiente, T.A.R. Toscana Firenze 23 dicembre 2010, in Dir. e giur. agr., 2011, 2, 143, che espressamente afferma che il liquidatore agisce “non in nome o per conto dei creditori concordatari, bensì nel rispetto delle direttive impartite dal tribunale”: definizione, per vero, un po’ confusa, ma in cui è, per lo meno, chiara la negazione della natura di mandatario dei creditori in capo al liquidatore).

In ogni caso, è pacifico che il liquidatore giudiziale non è un rappresentante del debitore, il cui concordato sia stato omologato; di tale regola è fatta applicazione dalla giurisprudenza (Trib. Pordenone 22 ottobre 2008, in Giur. mer., 2009, 1906 e in www.ilcaso.it, pubb. 29 luglio 2009) specificamente con riferimento alla questione se siano validamente indirizzati al liquidatore gli atti astrattamente idonei ad interrompere la prescrizione; sulla base della considerazione che il liquidatore giudiziale (così come il commissario giudiziale) del concordato preventivo non sono rappresentanti del debitore, se ne conclude che tali atti sono inidonei a dispiegare l’effetto interruttivo (sulla questione della prescrizione dei crediti, v. infra).

È certo che al liquidatore giudiziale spetta la qualificazione di pubblico ufficiale (Trib. Sulmona 29 ottobre 2007, in Giur. mer., 2008, 1613; Trib. Milano 17 maggio 2007, in Juris Data) ancorché, a differenza del curatore fallimentare e del commissario giudiziale del concordato preventivo (ai quali tale qualità è espressamente riconosciuta rispettivamente dagli artt. 30 e 165 l.fall.), nessuna norma gli attribuisca espressamente detta qualificazione. Peraltro, poiché l’art. 357 c.p. (riformulato) attribuisce la qualità di pubblico ufficiale a chi eserciti una funzione giudiziaria, la giurisprudenza ha osservato (Trib. Sulmona 29 ottobre 2007, cit.) che in tale nozione vanno fatte rientrare una serie di cosiddette funzioni ausiliarie (del giudice), quali quella del cancelliere, del segretario, del perito, dell’interprete, del testimone ed infine degli organi, vari, delle procedure fallimentari e concorsuali; anche a questi ultimi può competere la qualifica di pubblico ufficiale in ragione delle funzioni specifiche loro attribuite, che presentano indubitabilmente i caratteri dell’art. 357 c.p., sia per l’investitura ricevuta dal magistrato (art. 359 c.p.p.), sia per la funzione ausiliaria rispetto alla funzione giurisdizionale (art. 357 c.p.) svolta da tali organi.

Nel concordato con cessione dei beni è sempre necessaria la nomina del liquidatore giudiziale?

Ancorché la previsione dell’art. 182 l.fall. sembri chiara nell’affermazione che, nel caso di concordato con cessione dei beni, il tribunale debba nominare, con il decreto di omologazione, uno o più liquidatori, pure la giurisprudenza ha affermato che a tale nomina non debba provvedersi nel caso di liquidazione c.d. preconfezionata (e cioè se le modalità di liquidazione sono così dettagliatamente e puntualmente stabilite che non appare necessario nominare un apposito liquidatore per darvi corso; ad esempio, nel caso in cui l’acquirente sia già stato individuato e debba soltanto stipularsi il contratto definitivo, in presenza di un contratto preliminare che ne determina analiticamente il contenuto) (cfr. Trib. Novara 6 giugno 2011, in www.ilcaso.it, pubb. 20 giugno 2011; Trib. Parma 20 marzo 2008, in www.ilcaso.it, pubb. 29 gennaio 2009, non ha disposto per la nomina di un liquidatore giudiziale sulla base della considerazione che, per i beni mobili, era già stato incaricato l’istituto vendite giudiziarie, mentre, per l’azienda, “si deve soltanto provvedere a formalizzare la cessione”; contra Trib. Roma 24 maggio 2012, cit., secondo cui la domanda di concordato con cessione dei beni che escluda la nomina di un liquidatore è inammissibile in quanto “l’autonomia contrattuale trova un limite nella possibilità d’indicare solo le modalità liquidatorie, ma senza annullare totalmente la facoltà del liquidatore di procedere alla realizzazione dell’attivo”).

Designazione del liquidatore

La giurisprudenza appare divisa in ordine alla facoltà del debitore di designare, in modo vincolante, la persona del liquidatore giudiziale. Fermo restando che il liquidatore designato dal debitore deve comunque presentare le caratteristiche di professionalità e di indipendenza previste dalla legge (v. infra), secondo un orientamento, ove il piano preveda espressamente il nome del liquidatore e la persona indicata presenti le caratteristiche richieste dalla legge, il tribunale non avrebbe il potere di discostarsi dall’indicazione (Cass. 18 gennaio 2013, n. 1237, in questa Rivista, 2013, 555, che sottolinea il “decisivo rilievo attribuito alla volontà dei creditori ed al loro consenso informato”; Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, in Mass. Giust. civ., 2011, 1078 e in www.ilcaso.it, pubb. 9 novembre 2011; Cass. 20 gennaio 2011, n. 1345, in questa Rivista, 2011, 533 e in www.ilcaso.it, pubb. 23 maggio 2011, relativa ad una fattispecie disciplinata dalla normativa antevigente al decreto legislativo n. 169 del 2007; per la giurisprudenza di merito: Trib. Mantova 7 marzo 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 15 aprile 2013, secondo cui l’art. 182 l.fall. attribuisce al debitore proponente la facoltà di regolare la fase liquidatoria, e quindi anche la facoltà d’indicare, in modo vincolante per il tribunale, il nominativo del liquidatore, salvo il limite che questi deve presentare i requisiti di professionalità ed indipendenza richiesti per la nomina a curatore; Trib. Pescara 11 ottobre 2011, cit., secondo cui il tribunale deve prendere atto del contenuto della proposta anche per tale aspetto e dell’intervenuta approvazione dei creditori). In senso opposto, secondo altro orientamento, se nulla vieta che la proposta o il piano suggeriscano al tribunale il nominativo del liquidatore (cfr. Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, cit.; Trib. Terni 26 febbraio 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 25 marzo 2013; Trib. Milano 28 ottobre 2011, in Il Foro it., 2012, 1, 136 e in questa Rivista, 2012, 78), il potere di nomina si deve ritenere sempre riservato al tribunale (cfr. Trib. Milano 28 ottobre 2011, cit.; Trib. Firenze 9 maggio 2012, cit.; Trib. Novara 6 giugno 2011, cit.; Trib. Catania 14 aprile 2011, in Foro it., 2012, I, 137, che esattamente osserva che l’art. 182, comma 2, l.fall. introdotto dal decreto correttivo del 2007, nel richiamare, per il liquidatore, l’art. 37 l.fall. e quindi il potere di revoca del tribunale, implicitamente gli riconosce il potere esclusivo di nomina).

È pure controverso se possa nominarsi liquidatore lo stesso imprenditore ovvero l’amministratore o liquidatore dell’ente collettivo debitore; secondo un orientamento, che pare per vero preferibile, deve ritenersi quanto meno assai inopportuno che siano incaricati delle operazioni liquidatorie gli amministratori o i liquidatori civili (Trib. Roma 23 luglio 2010, www.ilcaso.it, pubb. 26 ottobre 2010) o comunque i professionisti privi di indipendenza (Trib. Benevento 10 ottobre 2012, cit.); secondo l’opposto orientamento, invece, disponendosi regole particolari in ordine alle modalità della liquidazione alla formazione e all’esecuzione dei riparti nonché alla presentazione del conto della gestione, sarebbe perfettamente legittima la nomina del debitore quale liquidatore giudiziale (Trib. Milano 20 dicembre 2005, in questa Rivista, 2006, 730, s.m.).

In ogni caso, ove sia nominato un liquidatore, è fuori discussione che l’attività liquidatoria non possa che essere svolta se non da lui; in particolare è reputato inammissibile che tale attività sia svolta in modo sostitutivo o alternativo dal debitore concordatario, e tanto in forza del richiamo operato dall’art. 182, comma 2, l.fall., alle disposizioni di cui agli artt. 37, 38, 39 e 116 l.fall. (cfr. Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, cit.).

Invece, non sembra dubitarsi che la nomina di liquidatore non possa attribuirsi al coniuge, ai parenti, agli affini, nonché infine alle altre persone indicate nell’art. 28, ultimo comma, l.fall. (cfr. Cass. 15 luglio 2011, n. 15699, cit.; Trib. Mantova 3 ottobre 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 21 ottobre 2013; Trib. Benevento 10 ottobre 2012, cit.). Inoltre, dichiaratamente prescindendo dall’esaminare la questione della facoltà o meno, per il debitore, d’indicare in modo vincolante il nominativo del liquidatore, la corte regolatrice ha escluso che possa nominarsi all’ufficio una persona priva dei requisiti professionali richiesti dallo stesso art. 28 l.fall., richiamato dall’art. 182 l.fall. (App. Catania 16 novembre 2012, cit.).

Infine, l’orientamento più recente della corte regolatrice (Cass. 18 gennaio 2013, n. 1237, cit.) cui mostra di volersi adeguare la giurisprudenza di merito (Trib. Udine 28 febbraio 2013, in www.ilcaso.it, pubb. 16 maggio 2013) esclude che possa nominarsi liquidatore giudiziale del concordato preventivo lo stesso commissario giudiziale, sulla base della considerazione che l’identificazione nella stessa persona delle funzioni del commissario e del liquidatore è oggettivamente ostativa alla realizzazione della funzione di sorveglianza che la legge demanda al primo rispetto alla funzione gestoria del secondo.

Compenso

Per la determinazione del compenso del liquidatore si fa riferimento alle previsioni dettate per il curatore fallimentare, ma con esclusivo riguardo all’ammontare dell’attivo, escluso il compenso supplementare sull’ammontare del passivo; ciò era stato interpretato nel senso che, se per qualsiasi ragione, anche incolpevole, il liquidatore non avesse proceduto o potuto procedere alla vendita dei beni, non doveva essere fatta applicazione dell’art. 5 dell’allora vigente decreto ministeriale 28 luglio 1992, n. 570 (che, quanto al compenso del commissario giudiziale, ne determinava l’ammontare facendo riferimento all’attivo e al passivo quali risultanti dall’inventario) bensì degli artt. 1 e 2 dello stesso decreto ministeriale, in base ai quali il compenso era determinato in misura percentuale rispetto all’attivo effettivamente realizzato, e, in difetto, nella misura minima normativamente prevista (Cass. 9 aprile 2008, n. 9178, in Mass. Giust. civ., 2008, 547 e in www.ilcaso.it, pubb. 25 luglio 2008).

Un caso particolare è rappresentato dall’ipotesi in cui siano nominati più liquidatori giudiziali dottori commercialisti. In tale ipotesi non si applica la disposizione dell’art. 30 del d.P.R. 10 ottobre 1994, n. 645, nonché dell’art. 30 del d.P.R. 6 marzo 1997, n. 100 - in tema di onorari ed indennità dei predetti professionisti per la liquidazione di beni ai creditori - bensì quella dell’art. 11 dei citati decreti a tenore del quale, in caso d’incarico collegiale (e in particolare in caso di collegio non obbligatorio), il compenso globale è quello dovuto, in astratto, al singolo professionista, maggiorato del 40% per ciascun membro del collegio, e diviso fra i suoi componenti in misura uguale, non applicandosi l’art. 53 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. in materia di spese di giustizia) a tenore del quale gli ausiliari del giudice composti in collegio, il compenso globale si determina sulla base del compenso spettante al singolo, aumentato del 40%, ma non per ciascuno dei membri del collegio, bensì per ciascuno dei membri che eccedono il primo - ritenendosi che non si applichi tale speciale disposizione sia perché il liquidatore giudiziale non è un ausiliario del giudice sia perché l’interpretazione analogica è vietata dall’esistenza di una specifica norma (Cass. 28 aprile 2006, n. 9864, in questa Rivista, 2006, 1369).

In caso di consecuzione di procedure, e cioè se, intervenuta la dichiarazione di fallimento, il liquidatore giudiziale è nominato curatore fallimentare, al professionista spettano compensi distinti per l’attività di liquidatore e per quella di curatore fallimentare: la giurisprudenza afferma, giustamente, trattarsi di due separate ed autonome attività cui compete una separata ed autonoma remunerazione (Cass. 15 dicembre 2011, n. 27085, in Mass. Giust. civ., 2011, 1778; Cass. 14 febbraio 2006, n. 3156, in Mass. Giust. civ., 2006, 392).

La prescrizione nella fase esecutiva

A norma dell’art. 168, comma 2, l.fall., le prescrizioni rimangono sospese per la durata del procedimento di omologazione ed esattamente fino al decreto di omologazione del concordato; nulla, esplicitamente, la legge stabilisce per la fase successiva. Da ciò la corte regolatrice ha tratto, in più pronunce, il principio secondo cui il termine prescrizionale riprende a decorrere dopo la definitività del decreto di omologazione e che, pertanto, la prescrizione matura anche in corso della fase esecutiva (Cass. 10 febbraio 2009, n. 3270, in Giur. comm., 2010, II, 809 e in www.ilcaso.it, pubb. 1° agosto 2010; Cass. 3 agosto 2007, n. 17060, in Mass. Giust. civ., 2007, 1526; Cass. 17 aprile 2003, n. 6166, in questa Rivista, 2004, 178).

A sostegno di tale lettura vengono invocati più argomenti, a partire da quello per cui la prescrizione dei diritti è regola generale, cui la legge può prevedere deroghe solo in via di eccezione; che, pertanto, nessuna norma espressa stabilisce la sospensione della prescrizione dopo l’omologazione; che non giova al riguardo richiamare l’art. 2941, n. 6, c.c., in quanto i beni del debitore, oggetto della cessione ai creditori, non divengono di proprietà di quest’ultimi e il liquidatore non è, comunque, un rappresentante dei creditori stessi.

In senso contrario mette conto menzionare un orientamento di merito opposto, secondo cui la prescrizione rimane sospesa anche nella fase esecutiva (Trib. Mantova 27 gennaio 2006, cit.; App. Brescia 7 aprile 2004, in www.ilcaso.it, doc. n. 616/2004).

Provvedimenti di chiusura

A norma dell’art. 181 l.fall. la procedura di concordato si conclude con il provvedimento di omologazione (o di rigetto dell’omologa). Ne segue che (secondo quanto sopra osservato) la fase esecutiva, secondo una certa chiave interpretativa, non avrebbe natura giurisdizionale in senso proprio (anche se, occorre ricordarlo, si afferma in più pronunce che la stessa va inquadrata in “una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata (in senso lato)” e che, pertanto, alla stessa debbono ritenersi applicabili una serie di disposizioni proprie dei procedimento esecutivi). Mentre nella disciplina del concordato fallimentare, l’art. 136, comma 3, l.fall. attribuisce al giudice delegato il potere di ordinare lo svincolo delle cauzioni, la cancellazione delle ipoteche iscritte a garanzia e di adottare ogni altra misura idonea al conseguimento delle finalità del concordato - prevedendosi altresì che tali provvedimenti siano assunti all’esito dell’accertamento della completa esecuzione del concordato (con ciò ammettendosi che il giudice debba compiere una decisione, pur implicita, circa l’intervenuta completa esecuzione del concordato) - nessuna norma è, invece, contenuta nella disciplina del concordato preventivo in ordine alla conclusione finale della fase esecutiva; in particolare non vi è traccia di sorta di disposizione dalla quale sia lecito desumere che l’autorità giudiziaria possa dichiarare che il concordato preventivo sia stato adempiuto e la fase esecutiva completata.

Con tutto ciò, non è infrequente, nella prassi, che i tribunali adottino provvedimenti con cui dichiarano la chiusura della procedura di concordato preventivo. Difettando qualsivoglia disposizione normativa che fondi, di questi provvedimenti, natura ed efficacia, si deve ritenere che essi abbiano natura meramente organizzatoria e siano inidonei ad incidere su diritti soggettivi; essi non possono quindi considerarsi preclusivi delle azioni ordinarie di cognizione ad opera dei creditori che fossero rimasti insoddisfatti dopo la falcidia concordataria e cioè per la parte loro spettante in forza del concordato.

Circa l’ammissibilità dell’impugnazione di tali provvedimenti, la giurisprudenza appare divisa.

Secondo un orientamento, poiché tali provvedimenti sarebbero privi dei caratteri della decisorietà e della definitività, e poiché essi non potrebbero pertanto incidere su diritti soggettivi, nemmeno sarebbero impugnabili per ricorso per cassazione a norma dell’art. 111 Cost. (il tema riguarda i provvedimenti assunti nelle fasi liquidatorie sia del concordato che della procedura fallimentare; specificamente, per i provvedimenti esecutivi emessi nel corso della fase esecutiva del concordato preventivo, cfr. Cass. 27 ottobre 2006, n. 23272 e Cass. 27 ottobre 2006, n. 23271, cit.).

Secondo altro orientamento (stimato numericamente prevalente e preferibile da Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19506, cit.), anche tali provvedimenti (sia nel concordato preventivo, sia nel fallimento) sarebbero impugnabili, per ragioni sistematiche, imposte anche dalla necessità di rispettare il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.: in tal senso, specificamente per i provvedimenti assunti nella fase esecutiva del concordato, v. Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19506, cit.

Non diversamente da quanto osservato in tema di dichiarazione di conclusione della fase esecutiva, anche per quanto attiene alla cancellazione delle ipoteche (dei beni trasferiti in sede esecutiva del concordato) nessuna disposizione, al contrario di quanto previsto in sede di concordato fallimentare, è dettata per il concordato preventivo (l’art. 185 l.fall. non richiama espressamente l’art. 136, comma 3, l.fall.). Ciò non di meno, un orientamento largheggiante (eppure condivisibile, in una chiave di lettura pragmatica) ammette l’esercizio ad opera del giudice delegato di tale potere anche nel concordato preventivo (Trib. Messina 8 maggio 2012, cit.; App. Milano 14 gennaio 2011, in www.ilcaso.it, pubb. 16 luglio 2012).

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