Dirigente pubblico e mancato raggiungimento dell'obiettivo previsto dall'incarico
Il dirigente pubblico che non raggiunge gli obiettivi previsti nel suo incarico, diversamente dal dirigente privato, non incorre necessariamente nel licenziamento, ma in base alla gravità del caso, si può imbattere in tre diversi sbocchi graduati, tutti causali: l'impossibilità di rinnovo dell'incarico, la revoca dello stesso o il recesso dal rapporto di lavoro.
Così ha deciso la Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza 1 febbraio 2007 n. 2233.
La vicenda ha visto coinvolto un dirigente dell’Agenzia delle Dogane, a cui gli era stata comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro per mancato superamento del periodo di prova, ma intimato tardivamente, dopo la scadenza del patto di prova medesimo.
L’interessato ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando l’illegittimità del provvedimento e chiedendo la reintegra nel posto di lavoro, respinta nel giudizio di appello, il quale, aveva basato la propria decisione sulla equiparazione di disciplina, anche negli aspetti risolutori, tra dirigente dell'impiego privato e dirigente pubblico contrattualizzato, condannando la P.A. al solo risarcimento del danno e al pagamento delle retribuzioni dal giorno del licenziamento a quello di scadenza del contratto.
La suprema Corte, nel richiamare la riforma del pubblico impiego con numerosi provvedimenti legislativi, trasfusi nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ha dapprima esaminato le peculiarità dei dirigenti pubblici, la cui disciplina non è sovrapponibile della dirigenza privata, con riferimento a tre momenti del rapporto di lavoro: la fase dell’assunzione, quella della gestione del rapporto e, infine, la fase del recesso.
Riguardo la prima fase, nel settore pubblico l'accesso alla qualifica di dirigente avviene tramite concorso per esami, dal superamento del quale sorge il diritto al trattamento economico stabilito dal relativo contratto collettivo.
Durante la fase di gestione del rapporto di lavoro, tenendo conto delle attitudini e capacità professionali, avviene l'attribuzione dell'incarico della funzione dirigenziale, a norma del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 art. 19. Attribuzione non necessaria per il mantenimento da parte dell’interessato del suo status di pubblico dipendente con qualifica dirigenziale, il quale, se non è stato affidato un incarico di direzione, secondo le previsioni normative, può svolgere funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o ad altri incarichi specifici previsti dall'ordinamento, ivi compresi quelli presso i collegi di revisione degli enti pubblici in rappresentanza di amministrazioni ministeriali.
Premesso questi tre momenti del rapporto di lavoro pubblico, la Suprema Corte, ha ricavato come nel pubblico impiego, il mancato raggiungimento degli obiettivi del dirigente a cui è attribuito un incarico, il cui status non è legato alle mansioni, non comporta la possibilità di risoluzione ad nutum del rapporto, ma tre sbocchi graduati a seconda della gravità del caso, tutti causali: l'impossibilità di rinnovo dell'incarico, la revoca dello stesso, il recesso dal rapporto di lavoro
Invero, la Corte fa rilevare come anche per la dottrina maggioritaria, il procedimento qualificatorio della categoria dirigenziale è completamente svincolato dall’esercizio delle mansioni effettivamente svolte, e si basa sulla ricorrenza di presupposti formali, “sicché nel settore pubblico esiste una scissione, ignota al diritto privato, fra l'acquisto della qualifica di dirigente (con rapporto di lavoro a tempo indeterminato) ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali a tempo”.
La diversità di disciplina del recesso nel rapporto dirigenziale privato e pubblico è, inoltre, confermata dalla giurisprudenza costituzionale. (Corte Cost. sent. 25 luglio 1996 n. 313) la quale “ha rilevato che l'applicabilità al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti delle disposizioni previste dal codice civile comporta non già che la pubblica amministrazione possa liberamente recedere dal rapporto stesso ma semplicemente che la valutazione dell'idoneità professionale del dirigente è affidata a criteri e procedure di carattere oggettivo assistite da un'ampia pubblicità e dalla garanzia del contraddittorio a conclusione delle quali soltanto può essere esercitato il recesso”.
In particolare il d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 21, comma 2, come modificato dalla legge 15 luglio 2002, n. 145, prevede tre previsioni sanzionatorie: nei primi due rientranti nel di mancato raggiungimento degli obiettivi o nella mancata osservanza delle direttive ricevute, “situazioni queste che certamente incrinano la fiducia nelle capacità manageriali del dirigente, ma questa valutazione negativa non porta alla risoluzione del rapporto, come per i dirigenti privati, bensì a sanzioni attinenti al solo incarico dirigenziale, di per sé fungibile e sottratto alle rigidità dell'art. 2103 c.c. (l'inapplicabilità dell'art. 2103 c.c. al lavoro pubblico dirigenziale, è sancita espressamente dall'art. 19, comma 1; Cass. 5659/2004 e 23760/2004 cit.), quali l'affidamento di un incarico dirigenziale di rilievo organizzativo, livello di responsabilità e valore economico inferiore, la perdita della retribuzione di posizione e il collocamento a disposizione per la durata massima di un anno (art. 23 c.c.n.l. del personale comparto ministeri con qualifica dirigenziale 9 gennaio 1997); il rapporto fondamentale di lavoro permane ciononostante stabile”. Una terza previsione sanzionatoria, per le mancanze più gravi, anche attinenti ad ambiti extra lavorativi (art. 27 medesimo c.c.n.l.), le quali possono portare a recedere dal rapporto di lavoro e, con esso, dall'incarico sovrastante.
La disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici – continua l’Organo giudicante – non è dunque quella dell'art. 2118 c.c., propria dei dirigenti privati, ma segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, in coerenza con la tradizionale stabilità del rapporto di pubblico impiego”.
Pertanto – conclude la Suprema Corte – le conseguenze di un recesso illegittimo, rinvenibili anche dalle disposizioni contrattuali, sono essenzialmente di carattere reintegratorio.
(Altalex, 27 marzo 2007. Nota di Gesuele Bellini)