Abuso d'ufficio
L'abuso d’ufficio è il delitto che commette il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio il quale, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto (art. 323 c.p.). L'abuso di ufficio rientra fra i reati contro la pubblica amministrazione.
1. La norma. Definizione e concetti generali
Il delitto di abuso d’ufficio è uno tra quelli, contro la Pubblica Amministrazione, sul quale si è maggiormente incentrata l'attenzione del nostro legislatore, se si pensa che la norma è stata novellata e sostituita dapprima dall’art. 13, Legge 26 aprile 1990, n. 86 e poi dall’art. 1, Legge 16 luglio 1997, n. 234, mentre più recentemente, l’art. 1, comma 75, lett. p), della Legge 6 novembre 2012, n. 190 ha inasprito il trattamento sanzionatorio prevedendo, anziché la pena della reclusione “da sei mesi a tre anni” la più grave pena “da uno a quattro anni”.
Il reato di abuso di ufficio, di cui all’art. 323 c.p., ha da sempre posto sul tappeto delicati problemi di “contatto” tra diritto penale, ed in particolare la funzione giudiziaria, e l’operato della pubblica amministrazione, in quanto da tempo gli studiosi hanno dimostrato una certa preoccupazione derivante dalla possibilità, per il giudice penale, di “penetrare”, anche in maniera piuttosto rilevante, all’interno dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione.
E’ evidente che tale “penetrazione” sarà più pressante nel momento in cui la norma incriminatrice che disciplina il reato, che vede il pubblico funzionario quale responsabile, sia costruita in termini generici mentre, al contrario, una norma sufficientemente dettagliata e precisa delimita, forzatamente, l’intervento del potere punitivo all’interno dei pubblici poteri.
E’ bene ricordare, a tal proposito, che uno dei principi fondamentali del diritto penale, corollario del superiore principio di legalità, è il c.d. principio di determinatezza, il quale impone al legislatore penale di costruire la norma nella maniera più precisa e dettagliata possibile (non a caso si parla anche di principio di precisione), sebbene, come è evidente, la legge non possa essere in grado di prevedere sempre e tutte le condotte sottoponibili a sanzione penale.
La fattispecie di abuso di ufficio è stata interessata da una recente ed importante evoluzione normativa che ha intaccato alcuni aspetti degni di nota che possono qui essere così sintetizzati:
1) la struttura oggettiva; il reato di abuso di ufficio è stato trasformato da reato a consumazione anticipata a dolo specifico a reato di evento a dolo generico, nel senso che, come vedremo meglio più avanti, ai fini della consumazione, non è più sufficiente che il pubblico funzionario abbia agito con il fine di vantaggio o danno, ma occorre che vi sia l’effettiva produzione dell’uno o dell’altro;
2) il vantaggio deve essere patrimoniale e doveva essere prodotto in violazione di norme di legge o di regolamento;
3) dal punto di vista dell’elemento psicologico del reato si richiede il dolo intenzionale;
4) si assiste ad un abbassamento del limite di pena in tre anni, in modo da impedire l’applicazione delle misure coercitive (custodia cautelare in carcere).
Prima della legge n. 26 del 1990 si parlava di “abuso innominato” e la norma puniva il pubblico ufficiale il quale, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, avesse commesso qualsiasi fatto non preveduto dalla legge come reato da una particolare disposizione, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio.
L’art. 13 della legge del 1990, fondando un nuovo art. 323 c.p., incriminava, salvo che il fatto costituisse più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, avesse abusato del suo ufficio. Era prevista una circostanza aggravante nel caso in cui il vantaggio avesse avuto carattere patrimoniale.
L’obiettivo della riforma della legge 234 del 1997 è stato proprio quello di restringere il campo di intervento del giudice penale, allo scopo di liberare la pubblica amministrazione da ingerenze del potere giudiziario e dal pericolo di inerzia conseguente alla paura di una criminalizzazione del suo operato.
La nuova formulazione dell’art. 323 c.p., a seguito delle modifiche introdotte dalla legge appena citata, dispone che “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione delle norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.
L’attuale fattispecie di abuso mantiene la clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, formula che esprime l’idea che la fattispecie in commento possieda un ruolo sussidiario rispetto a fatti abusivi, che integrino gli estremi di più gravi reato contro la pubblica amministrazione (ad esempio corruzione o concussione).
2. La riforma contenuta nel Decreto Semplificazioni
Il reato di abuso d'ufficio è stato recentemente ridimensionato nella sua portata applicativa dal d.l. 76/2020 convertito in legge 120/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni) mediante il quale l'area del penalmente rilevante non viene più ricondotta, come in passato, alla violazione di “norme di legge o di regolamento”, ma viene delimitata alla inosservanza di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, così escludendo che la fattispecie possa trovare applicazione nel caso di violazione di norme di rango secondario come i regolamenti, ma anche nell'ipotesi di norme di rango primario qualora non derivino violazioni di specifiche regole di condotte imposte al funzionario dalla legge medesima.
Il fondamento della modifica è da rinvenire, in primo luogo, nella necessità di far fronte alla possibile inerzia dei pubblici funzionari fermati dall'assumere decisioni di interesse pubblico per paura di incorrere in violazioni di legge; l'obiettivo, infatti, è stato quello di eliminare dal penalmente rilevante l'eccesso di potere, sulla scia già introdotta dalla legge n. 234 del 1997.
Per effetto di detta modifica normativa, il delitto di abuso di ufficio attualmente è configurabile quando il soggetto agente abbia violato:
- specifiche regole di condotta (non regole di carattere generale);
- regole dettate da norma di legge o atti aventi forza di legge (ad esclusione degli atti di normazione secondaria come i regolamenti);
- regole che non lascino spazio alla discrezionalità del soggetto).
3. Il bene giuridico tutelato
In tema di abuso di ufficio si possono riscontrare almeno due differenti teorie in merito all’interesse giuridicamente tutelato:
- Interesse alla probità e alla correttezza del pubblico ufficiale: L’interesse alla probità e alla correttezza del pubblico ufficiale è l’interesse a che il pubblico ufficiale osservi determinati doveri. Come evidenziato dalla dottrina, o l’oggetto della tutela è costituito dall’osservanza di tali doveri oppure esso è rappresentato da alcuni specifici interessi che tale soggetto deve salvaguardare e a tutela dei quali sono predisposti i doveri di probità e di correttezza.
In realtà, la teoria che vede nell’interesse alla probità e alla correttezza il vero bene giuridico tutelato direttamente dall’art. 323 c.p. può essere sottoposta a critica, e non è un caso che la dottrina abbia parlato di questo interesse solo di sfuggita; infatti, probità e correttezza sono doveri “morali”, che non interessano il diritto se non in quanto si riflettano sulla tutela di altri interessi. - Interesse al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione: L’orientamento dominante in dottrina, così come in giurisprudenza, rinviene nel buon andamento della P.A. il vero interesse giuridico tutelato dalla norma in commento.
“Buon andamento” significa che il pubblico ufficiale si deve attivare al fine di assicurare un normale funzionamento dell’apparato amministrativo, facendo un retto e moderato esercizio delle pubbliche funzioni; in altre parole, è necessario che il pubblico ufficiale persegua le finalità della pubblica amministrazione.
Dobbiamo ritenere, però, che il “buon andamento” non sia l’unico interesse tutelato dalla disposizione in esame; così potrebbe essere, infatti, solo se la medesima richiedesse il “danno” in capo all’amministrazione, quale evento penalmente sanzionabile. Posto che l’art. 323 c.p. richiede che, oltre al danno, derivi dalla condotta del soggetto agente anche un “vantaggio ingiusto” per il pubblico ufficiale o per altri, ecco allora che oltre al buon andamento della P.A. si deve aggiungere l’interesse all’imparzialità dell’amministrazione pubblica.
Si parla di imparzialità per evidenziare che i poteri della pubblica amministrazione non siano utilizzati per alterare il diritto all’eguaglianza dei cittadini nei confronti della stessa.
Ecco allora che, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la persona offesa è da individuare solo nella pubblica amministrazione, in quanto l’interesse protetto dalla norma incriminatrice, è rappresentato, come detto, dal buon andamento, dall’imparzialità e dalla trasparenza dell’azione dei pubblici ufficiali. Accogliendo tale impostazione ne deriva che il privato che abbia eventualmente subito un danno ingiusto è semplicemente un soggetto danneggiato, legittimato a costituirsi eventualmente parte civile nel processo penale. Sul punto, però, si legge che: “Il reato di abuso d'ufficio è idoneo a ledere, oltre all'interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione e all'imparzialità dei pubblici funzionari, anche l'interesse del privato a non essere turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti e a non essere danneggiato dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale. Ne consegue che il soggetto al quale la condotta abusiva abbia arrecato un danno riveste la qualità di persona offesa dal reato, legittimato non solo a costituirsi parte civile quando il processo abbia inizio (diritto spettante anche al solo danneggiato), ma anche a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del p.m. in applicazione degli art. 409 e 410 c.p.p.” (Cass., sez. VI, 16 dicembre 2010, n. 1231, in Guida dir. 2011, f. 9, p. 75).
In senso difforme si è affermato che, essendo il reato di abuso d’ufficio finalizzato ad arrecare al altri un danno ingiusto, questo avrebbe natura di reato plurioffensivo, in quanto idoneo a ledere, oltre all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della pubblica amministrazione, il concorrente interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti dal comportamento ingiusto ed illegittimo del pubblico ufficiale. Secondo certo orientamento giurisprudenziale, infatti: “Il reato di abuso d'ufficio ha natura necessariamente plurioffensiva quando è commesso arrecando ad altri un danno ingiusto, nel senso, cioè che devono essere lesi sia gli interessi costituzionalmente tutelati del buon andamento e dell'imparzialità della p.a. (art. 97 Cost.), sia quelli di un extraneus o anche di un dipendente dell'amministrazione stessa, purché sia toccato nella sua personale condizione giuridica derivante dal rapporto di impiego” (Cass., sez. VI, 20 settembre 2005, n. 39259, in Cass. pen., 2006, p. 3643).
4. La condotta. Lo svolgimento delle funzioni o del servizio
La condotta deve compiersi nello svolgimento delle funzioni o del servizio. Ad una lettura superficiale sembrerebbe che la norma voglia esprimere la necessità di un collegamento temporale tra l’esercizio delle mansioni tipiche del pubblico ufficiale e il comportamento criminoso, ovvero mentre il soggetto attivo è in servizio.
Il che, però, non è, in quanto non si comprende come l’elemento cronologico possa, da solo, contribuire alla definizione del disvalore della condotta; appare evidente che la gravità di determinati abusi ben poco può essere influenzata dalla circostanza che vengano commessi mentre il pubblico ufficiale è in servizio.
In realtà, quello che la norma richiede è che l’abuso sia commesso con l’esercizio della funzione o del servizio, per scopi diversi da quelli imposti dalla natura della funzione ad esso attribuita.
I c.d. atti extrafunzionali, ovvero atti del tutto avulsi dal contenuto dell’ufficio o del servizio, non potranno, quindi, integrare abuso d’ufficio, essendo del tutto irrilevante, poi, che si tratti di un ufficio o di un servizio svolto sulla base di una regolare investitura oppure sulla base di una semplice tolleranza della pubblica amministrazione.
Basti pensare, a titolo d’esempio, a quei comportamenti che, anche se posti in essere in violazione di un dovere di correttezza, siano tenuti come soggetto privato, senza che l’agente si serva, in alcun modo, dell’attività funzionale svolta o quei comportamenti con i quali il soggetto agente “approfitta” della propria qualità, nemmeno quando tale ostentazione avvenga “in occasione” dello svolgimento del servizio.
5. La violazione delle specifiche regole di condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalità
La delimitazione dell’ampiezza della condotta penalmente punibile si rinviene soprattutto attraverso la chiarificazione dei requisiti di illiceità, in particolare a seguito della riforma del reato di abuso di ufficio ad opera del Decreto Semplificazioni; attualmente, infatti, come abbiamo già accennato in precedenza, la norma dispone che la punibilità sia delimitata per il caso di violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
Sebbene la delimitazione del “penalmente rilevante” si sia resa quanto mai opportuna, residuano tutt'ora problematiche residue se si considera il concreto rischio di ricondurre all’interno della “violazione di legge” anche condotte c.d. accessorie all’ufficio o al servizio (basti pensare ad attività materiali commesse in violazione dei doveri e fonte di danno per il cittadino).
Con il termine “legge” il legislatore ha inteso, ovviamente, non solo la fonte normativa di competenza del Parlamento, ovvero la legge ordinaria dello Stato, ma anche la Costituzione, la Legge Costituzionale, la Legge Regionale, la Legge delle Province Autonome e, secondo un certo orientamento, qualsiasi fonte di diritto sovraordinata alla legge ordinaria (si pensi ai Regolamenti Comunitari, direttamente applicabili all’ordinamento italiano).
Maggiori problematiche di determinatezza poneva il concetto di “Regolamento”, a causa della mancanza di indicazioni costituzionali e di una univoca nomenclatura nella teoria delle fonti del diritto. Infatti, in senso lato, possono dirsi come regolamenti diverse fonti subordinate alla legge ordinaria, generali e vincolanti per la pubblica amministrazione (es. decreti, regolamenti, ordinanze, circolari, bandi, ecc.).
Obiezioni venivano avanzate sotto il profilo di un rigoroso rispetto del principio di riserva di legge in materia penale, nel senso che la fattispecie di abuso era costruita in modo tale da ammettere che una fonte normativa secondaria, come il regolamento, concorra alla descrizione dell’illecito penale per la determinazione di elementi significativi del fatto punibile.
Per stabilire la sussistenza del reato di abuso d'ufficio, sotto il profilo della violazione di regolamento, occorreva avere riguardo all'attributo formale che viene impresso all'atto amministrativo dal legislatore; non era, quindi, sufficiente che l'atto medesimo avesse, nella sostanza, valore normativo, ma era necessario che esso fosse stato emanato all'esito di un procedimento tipico imposto dal legislatore per il compimento di talune scelte da parte delle amministrazioni. Ad esempio, si era sostenuto che i regolamenti comunali adottati ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), per disciplinare l'ordinamento degli uffici e la dotazione organica, dovessero essere annoverati tra le fonti regolamentari la cui violazione poteva integrare il reato di abuso d'ufficio (Cass. Pen., sez. VI, 17 marzo 2009, n. 26175, in Ced, 2009).
Un passato orientamento della giurisprudenza di legittimità, al contrario, affermava che, ai fini della configurabilità dell’abuso di ufficio, non rilevassero solo le norme che vietassero puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico funzionario, ma qualsiasi altra norma, anche di natura procedimentale, la cui violazione determinasse, comunque, un danno ingiusto a norma dell’art. 2043 c.c., precetto, quest’ultimo, che, secondo il più recente orientamento delle Sezioni Unite Civili, deve essere considerato non come norma secondaria volta a sanzionare una condotta vietata da altre disposizioni, ma come norma primaria diretta a apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui (Cass. Pen., sez. VI, 24 febbraio 2000, n. 4881, in Cass. pen., 2003, p. 511).
Il delitto di abuso d'ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico di una norma di legge (o di regolamento, ante riforma), ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine.
Si riteneva che non potessero, quindi, fondare una incriminazione per abuso d’ufficio le violazioni di:
- regolamenti emanati da soggetti privati;
- regolamenti interni o di organizzazione;
- il bando di un concorso, in quanto atto amministrativo; in senso contrario però si è evidenziato che fini della configurabilità del delitto di abuso d'ufficio, deve escludersi che possa costituire violazione di norme di legge o di regolamento l'inosservanza delle disposizioni inserite in un bando di concorso (Cass. Pen., sez. VI, 26 maggio 2009, n. 24480, in Ced 2009).
- la circolare, gli ordini e le discipline, in quanto aventi efficacia meramente interna; la Cassazione, con la sentenza 15272 del 21 aprile 2010 ha evidenziato come le circolari, avendo natura meramente interpretativa o attuativa di norme preesistenti e che comunque sono prive della forza normativa della legge o del regolamento, debbano essere escluse dall’ambito di applicazione della norma.
- le norme interne al procedimento amministrativo; Ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 323 c.p. la violazione di legge rilevante è solo quella riferita a disposizioni dotate di uno specifico contenuto prescrittivo, con esclusione delle norme meramente procedimentali, da intendersi rigorosamente come quelle destinate a svolgere la loro funzione all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto ed immediato sulla decisione amministrativa;
- gli atti di carattere interpretativo o attuativo di precedenti norme di legge o di regolamento;
- le ordinanze contingibili e urgenti;
- la prassi amministrativa;
- le delibere della giunta comunale;
- lo statuto di un ente consortile.
La giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che la formulazione di un parere consultivo, se espresso contra legem, potesse integrare la condotta del reato di abuso di ufficio, nel caso in cui il giudice abbia accertato che il provvedimento finale sia stato frutto di accordo tra gli operanti, con la conseguenza che il predetto parere si inserisce nell'iter criminis come elemento diretto ad agevolare la formazione di un atto illegittimo ed in grado di far conseguire un ingiusto vantaggio (Cass. Pen., sez. V, 2 febbraio 2001, n. 21947, in Cass. pen., 2002, p. 2746).
La ratio della formula “in violazione delle norme di legge o di regolamento” era da individuare nella necessità di evitare che l’abuso punibile venisse sostanzialmente identificato, come è avvenuto di frequente in passato, con il semplice eccesso o sviamento di potere, ancora una volta con il rischio di uno sconfinamento del controllo penale all’interno delle scelte discrezionali della pubblica amministrazione
In passato si sosteneva, infatti, che l’abuso commesso dal pubblico funzionario comportasse sempre uno sviamento di potere dalla causa tipica per il quale il potere medesimo veniva attribuito a tale soggetto. Letto in tal senso, l’abuso di ufficio veniva fatto coincidere con un eccesso o uno sviamento di potere
Secondo la giurisprudenza, l'art. 323 c.p. nella formulazione introdotta dall'art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234, escludeva che il reato potesse configurarsi con l'emanazione di un atto amministrativo inficiato da vizi di legittimità diversi da quelli tassativamente indicati dalla norma, quale l'eccesso di potere (Cass. Pen., sez. VI, 16 dicembre 2002, n. 1761, in Cass. pen., 2004, p. 863).
Pertanto, ad esempio, si è ritenuto che non integri il reato il cattivo uso dei poteri di valutazione dei candidati in un pubblico concorso da parte dei componenti della commissione, ancorché il giudizio si estrinsechi attraverso la semplice espressione di un voto.
Di grande rilievo è la tematica del rilascio di un permesso di costruire in difformità rispetto agli strumenti urbanistici, che costituiscono fonti sub regolamentari. In tale situazione, la giurisprudenza ritiene che possa configurarsi abuso di ufficio e per fare ciò ricorre alla nozione di violazione mediata. Dato che sono le norme di legge statale o regionale ad imporre il rispetto degli strumenti urbanistici, il mancato rispetto costituirebbe violazione di legge.
Si faccia l’esempio del sindaco il quale, rilasci una concessione edilizia in sanatoria in assenza del requisito della conformità al Piano Regolatore il quale esclude l’edificazione di costruzioni commerciali in aree destinate al verde privato.
Sebbene tale soluzione possa apparire azzardata, posto che la legge richiamata rappresenta un elemento normativo del fatto, sicché nulla osta a che diverse fonti possano contribuire alla precisazione del fatto medesimo.
Quanto detto si pone in contrasto con una remota giurisprudenza la quale ritiene che nell’ipotesi che vi ho accennato vi sia non solo una violazione del principio della riserva di legge, ma anche una violazione del principio di determinatezza, in quanto il riferimento ad una fonte mediata rimetterebbe la valutazione del fatto tipico a fonti delle quali non sarebbe predefinito dal legislatore il contenuto e l’ambito di applicazione.
A seguito della modifica normativa la configurabilità del reato di abuso di ufficio si ha solo nel caso di violazione di specifiche regole di condotta dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero ai casi in cui la violazione abbia ad oggetto una determinata regola di condotta rispetto alla quale la legge abbia preordinato l'an, il quomodo, il quid ed il quando dell'azione amministrativa, e ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta attinente allo svolgimento di un potere che, in astratto è discrezionale ma concretamente diviene vincolato per le scelte effettuate dal pubblico funzionario prima dell'adozione dell'atto o del comportamento dal quale scaturisce il reato.
I primi interventi giurisprudenziali confermano quanto appena detto e ci aiutano a delimitare i confini del penalmente punibile: infatti si è recentemente affermato che il legislatore della novella, stabilendo che l'abuso di ufficio sia configurabile solo nel caso di violazione di specifiche regole di condotta, dalle quali non residuino margini di discrezionalità, abbia inteso fare riferimento non solo ai casi in cui la violazione abbia ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all'esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato, ma anche ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio (Cass. pen., Sez. IV, 1 marzo 2021, n. 8057).
A ben vedere, l'eliminazione, dal novero delle fonti idonee a configurare il delitto di abuso di ufficio, dei regolamenti, e la previsione secondo la quale la legge è idonea a detta configurabilità solo se disciplina espressamente la condotta del pubblico funzionario senza lasciargli margini di discrezionalità, rischia di fissare limiti troppo stringenti tali da determinare una non remota depenalizzazione in concreto della fattispecie.
Proprio la discrezionalità svolge un ruolo importantissimo per il corretto funzionamento di settori nevralgici della pubblica amministrazione e dell'esercizio del potere amministrativo che non risulta mai essere del tutto vincolato dal momento che ogni norma implica sempre un certo margine di discrezionalità applicativa o interpretativa.
6. La violazione dell’obbligo di astensione
L’altra modalità tipica di realizzazione dell’abuso consiste nell’omettere di astenersi, in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. Ovviamente, tale omessa astensione sussiste solo quando il pubblico funzionario sia destinatario di un obbligo giuridico di astenersi, derivante dalla legge o da un’altra fonte normativa.
L’art. 6 del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, norma non regolamentare, prescrive che il dipendente deve astenersi dal partecipare all’adozione di decisioni o di attività che possano coinvolgere interessi propri ovvero dei suoi parenti entro il quarto grado o conviventi, di individui od organizzazioni cui egli stesso o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito, di individui o organizzazioni di cui egli sia il tutore, curatore, procuratore o agente, nonché di enti, organizzazioni, comitati, società o stabilimenti di cui egli sia amministratore o gerente, e in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza.
Il riferimento agli “altri casi” consente di attribuire un rilievo a doveri di astensione non necessariamente previsti da legge, anche quando non considerino un conflitto di interessi propri del pubblico funzionario con un prossimo congiunto in senso penalistico, bensì altre situazioni potenzialmente influenti sul buon andamento del procedimento.
Omettere di astenersi, ovvero un non fare un non fare, significa fare qualcosa che non si doveva fare; la condotta è quindi attiva e non omissiva, causalmente orientata verso la produzione dell’evento tipico.
Sono rilevanti, in tal senso, il divieto di un comportamento, o della partecipazione o all’emanazione di un provvedimento, nel caso in cui questi corrispondano ad un interesse personale dell’agente o di un prossimo congiunto. L’art. 323 c.p., sul punto, non effettua alcun rinvio a fonti esterne, posto che è la stessa norma incriminatrice a fondare una impostazione generica ma al tempo stesso rigorosa.
Vi è comunque la necessità che dall’omessa astensione derivi un ingiusto danno o vantaggio patrimoniale, il che esclude che possa esservi abuso di ufficio nel caso di una mera disubbidienza ad un precetto di carattere deontologico, così come nel caso in cui, anche se l’agente si fosse astenuto, si sarebbe verificato il medesimo evento tipico.
“È ravvisabile l'abuso d'ufficio nel comportamento del medico dipendente di una struttura sanitaria pubblica che, dopo la visita presso tale struttura di un paziente, lo indirizzò presso il proprio studio privato, prospettando la possibilità di abbreviare i tempi di attesa necessari per effettuare gli accertamenti. In tale condotta è ravvisabile, infatti, non solo la violazione dell'obbligo di astensione, ma anche il profilo dell'ingiustizia del vantaggio perseguito, con la precisazione che quest'ultimo elemento non è certo configurabile nella remunerazione (in sé giustificata dal sinallagma funzionale) della futura prestazione professionale, bensì nell'acquisizione dell'occasione della prestazione stessa” (Cass. Pen., sez. VI, 23 febbraio 2010, n. 21357, in Riv. pen, 2010, p. 1271).
Interessante sentenza della giurisprudenza di legittimità secondo la quale, il consigliere comunale non ha il dovere di astenersi da delibere di approvazione di piani regolatori generali, trattandosi di atto finale di un procedimento complesso in cui confluiscono e si compensano molteplici interessi, collettivi o individuali, sicché il voto espresso dal singolo amministratore non riguarda una specifica prescrizione ma il contenuto generale dell'atto.
Sussiste invece il dovere di astensione, ed è conseguentemente configurabile il reato in caso di mancata astensione, qualora si tratti di partecipazione a delibere su opposizioni al piano regolatore generale riconducibili a interessi personali sia propri dell'amministratore sia di un prossimo congiunto (Cass. Pen., sez. VI, 15 febbraio 2000, n. 11600, in Cass. pen. 2003, p. 511).
Un profilo di incontrollabile estensione potrebbe essere costituito dalla mancata specificazione del tipo di interesse; posto che sembrerebbe assumere rilievo anche un coinvolgimento solo morale, si è evidenziato come il coinvolgimento del terzo “non prossimo congiunto”, nei confronti del quale l’agente intrattenga un rapporto amoroso o amichevole possa essere considerato come in “interesse affettivo” del pubblico funzionario.
7. La condotta omissiva
Non vi è alcun dubbio sul fatto che l’attuale formulazione dell’abuso d’ufficio possa configurarsi anche mediante una omissione, sempre che, ovviamente, la norma legislativa violata abbia come contenuto un obbligo di fare che il funzionario pubblico disattende (Cass. Pen., sez. VI, 9 novembre 2010, n. 41697, M.S., in Ced, 2010).
Si può considerare abuso di ufficio il mancato impedimento di un ingiusto danno o vantaggio patrimoniale quando norme di legge impongano di agire in tal senso. Il soggetto agente deve essere considerato come “garante” incaricato di salvaguardare gli interessi compromessi dall’ingiustizia del danno o del vantaggio, secondo quanto disposto dall’art. 40, secondo comma, c.p.
Emblematico era il caso di un vigile urbano il quale, in violazione dell'obbligo di accertamento e di contestazione delle infrazioni in materia di circolazione stradale, si astesse dal rilevare e contestare l'inosservanza di un divieto di sosta posta in essere da un soggetto diverso da altro nei confronti del quale la medesima infrazione era stata dallo stesso rilevata e contestata.
8. L’elemento soggettivo
La legge n. 234 del 1997 ha modificato il reato di abuso di ufficio anche sotto l’aspetto dell’elemento soggettivo, non delineando più, come in passato, un reato a dolo specifico e a consumazione anticipata, ma un reato d’evento a dolo generico, anche se intenzionale.
Il dolo, dunque, oltre alla coscienza e volontà di porre in essere l’azione, richiede la consapevolezza dell’esercizio di una pubblica funzione o servizio, con violazione di norme di legge, ivi compreso l’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto e negli altri casi prescritti dall’ordinamento.
Ancora una volta, la limitazione della punibilità al solo dolo intenzionale si spiega con la preoccupazione di restringere il più possibile l’area della responsabilità penale, non essendo sufficiente né il dolo eventuale, il quale si ha nel caso di accettazione del rischio del verificarsi dell’evento, né il dolo diretto, ovvero la rappresentazione dell’evento come conseguenza realizzabile con un elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza che sia un obiettivo perseguito.
L’avverbio “intenzionalmente”, esprime un vero e proprio novum giuridico non presente, prima di allora, all’interno di altre fattispecie codicistiche, avente l’intento di restringere e contenere all’interno di ipotesi tassativamente prefissate la sfera di operatività della norma, per non paralizzare l’attività normativa solo perché viziata da violazione di legge.
L’uso dell’avverbio “intenzionalmente” per qualificare il dolo implica che sussiste il reato solo quando l’agente si rappresenta e vuole l’evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o di altri come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta, come obiettivo primario perseguito e non quando costui intenda perseguire l’interesse pubblico come primario, come confermato dalla giurisprudenza di legittimità: “In tema di abuso d'ufficio, la presenza nell'art. 323 c.p. dell'avverbio "intenzionalmente" limita l'ipotesi di dolo nella condotta del pubblico ufficiale che procura a terzi un ingiusto vantaggio patrimoniale (o un danno): l'abuso d'ufficio non si configura, pertanto, laddove il pubblico ufficiale si prefigga davvero di realizzare un interesse pubblico pur violando la legge e determinando il vantaggio al privato. Tuttavia, quando si dice "pubblico", s'intende in senso stretto: sono dunque esclusi il fine genericamente collettivo, il fine privato dell'ente pubblico e soprattutto quello politico (che non rientra fra quelli pubblici)” (Cass. Pen., sez. VI, 20 ottobre 2010, n. 39371).
Di conseguenza, secondo un certo orientamento, nonostante la violazione di legge, non si potrà parlare di abuso d’ufficio se la condotta sia espressione di un volontà diretta a realizzare altro e diverso interesse collettivo, venendo meno, in tal caso, l’esclusiva e diretta intenzione del soggetto agente di arrecare un danno ingiusto ad altri.
Cosa accade nel caso in cui il pubblico agente sia mosso da più fattori motivanti, fra i quali anche quello tipizzato dal legislatore? Si ritiene che in tale situazione, quando l’evento del reato si atteggia a fattore determinante del comportamento del soggetto, si debba rientrare all’interno del dolo intenzionale, a nulla rilevando la presenza di un altro fine pubblico o privato che sia.
“Intenzionalità” non significa, infatti, esclusività del fine che deve animare l'agente, ma preminenza data all'evento tipico rispetto al pur concorrente interesse pubblico, che finisce con l'assumere un rilievo secondario e, per così dire, “derivato” o “accessorio”.
9. La c.d. doppia ingiustizia: il vantaggio e il danno
Nella nuova formulazione dell’art. 323 c.p. è tipico solo l’abuso da cui derivi un danno, di qualsiasi natura, o un vantaggio ingiusto, purché di natura patrimoniale.
Voi capite che, come sottolineato da accorta dottrina, la precisazione dell’ingiustizia appare pleonastica se si pensa come questa non faccia altro che esplicitare e ribadire quanto è ricavabile da una interpretazione della norma, non potendo considerare come “giusti” un vantaggio o un danno perseguito abusando delle funzioni pubbliche.
Ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio, è necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, e ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia.
Ne consegue che occorre una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell'illegittimità della condotta, ed essendo possibile, in teoria, che il reato non rimanga integrato se, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, l'evento di vantaggio (o di danno) non sia di per sé ingiusto.
Ad esempio, il reato si potrebbe ravvisare a carico di un medico di una struttura pubblica che abusivamente, in violazione del dovere di astensione, indirizzi i pazienti presso il proprio studio privato per l'effettuazione di ulteriori esami specialistici; la giurisprudenza, in un caso similare, ha ritenuto che correttamente era stata apprezzata la sussistenza della "doppia ingiustizia", in quanto, una volta accertata l'illegittimità della condotta violativa del dovere di astensione, si era apprezzata anche l'ingiustizia del vantaggio, sul rilievo che i pazienti, in tal modo, erano stati "caricati" ingiustamente di una spesa per l'onorario privato del medico, a fronte di un più modesto ticket ospedaliero che avrebbero dovuto sborsare.
Per la configurazione del reato di abuso di ufficio, nel caso in cui il risultato dell'azione delittuosa consista nel cagionare un danno ingiusto, è indispensabile che tale danno sia conseguenza diretta ed immediata del comportamento dell'agente e quindi che sia da costui voluto quale obiettivo del suo operato, come si evince dall'avverbio intenzionalmente utilizzato dal legislatore.
In tema di abuso d'ufficio, il requisito del vantaggio patrimoniale sussiste non solo quando l'abuso sia volto a procurare beni materiali o altro, ma anche quando sia volto a creare un accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l'atto è stato posto in essere. Come evidenziato dalla giurisprudenza: “Ai fini dell'integrazione del reato di abuso d'ufficio, è necessario che sussista la cosiddetta doppia ingiustizia, nel senso che ingiusta deve essere la condotta, in quanto connotata da violazione di legge, e ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia. Ne consegue che occorre una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi far discendere l'ingiustizia del vantaggio conseguito dalla illegittimità del mezzo utilizzato e quindi dalla accertata esistenza dell'illegittimità della condotta, ed essendo possibile, in teoria, che il reato non rimanga integrato se, pur essendo illegittimo il mezzo impiegato, l'evento di vantaggio (o di danno) non sia di per sé ingiusto” (Cass. Pen., sez. VI, 24 aprile 2008, n. 27936).
La situazione è semmai diversa, potendosi configurare il reato di abuso di ufficio, in caso di favoritismo per il superamento di un esame di concorso per il conseguimento di un posto di lavoro o l'esercizio di una professione, posto che tali ipotesi incidono direttamente su prospettive di lavoro e sui connessi vantaggi economici.
Potrebbe rilevare, ad esempio, la condotta dell’assistente sociale che contribuisca a far assegnare indebitamente ad un amico o conoscente, un sussidio economico al quale costui non avrebbe diritto, violando le prescrizioni regolamentari che disciplinano l’assegnazione stessa.
10. Concorso di persone
E’ del tutto possibile che l’abuso di ufficio sia commesso da una pluralità di soggetti agenti. La prima ipotesi da considerare è l’abuso commesso da più soggetti possedenti le qualifiche soggettive descritte e richieste dalla norma, ovvero più pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (c.d. intranei).
Tale ipotesi ben può realizzarsi nel caso di procedimenti amministrativi complessi, che siano la risultante dell’apporto di più pubblici ufficiali, in diverse fasi o con diversi atti. In questi casi, possiamo dire responsabile penalmente il pubblico ufficiale che abbia la responsabilità dell’atto finale del procedimento amministrativo ma non colui che abbia fornito in quel contesto un contributo non determinante per l’esito procedimentale, né colui il quale non abbia agevolato altre condotte determinanti in tal senso.
Tornando al caso del permesso di costruire illegittimo, non incorrerà in un abuso per mancata conformità alla regolamentazione urbanistica il tecnico che si sia espresso favorevolmente per ciò che concerna altra normativa, ad esempio quella ambientale. In altre parole, deve ritenersi determinante, per la verifica della sussistenza della responsabilità dell’intraneo, la verifica della strumentalità del proprio contributo alla realizzazione dell’evento di reato, secondo quelli che sono i parametri offerti dall’art. 110 c.p.
Nell’ambito degli atti collegiali il singolo comportamento all’interno dell’organo sarà penalmente rilevante se strumentale alla realizzazione dell’abuso di ufficio da parte degli altri membri. In tal caso, tornando momentaneamente alla tematica dell’elemento psicologico, appare rilevante la verifica della consapevolezza e della volontà, da parte del soggetto agente, di concorrere in un abuso di ufficio, anche solo nell’interesse di alcuni membri del collegio, accompagnato dalla intenzionalità dell’ingiusto danno o vantaggio patrimoniale nel senso sopra precisato.
Per quanto attiene al concorso del c.d. extraneus, ovvero del soggetto estraneo alla pubblica amministrazione o che, comunque, non possiede la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, è evidente che ogni volta che un soggetto, ad esempio un privato cittadino, abbia favorito l’abuso del pubblico funzionario sorge il dubbio sulla sua corresponsabilità.
E’ ovvio che il fatto di trarre un mero vantaggio dal comportamento illegittimo della pubblica amministrazione non possa costituire, di per sé, un concorso, in quanto è necessario che vi sia una condotta che abbia influenzato le scelte del pubblico funzionario, anche se non è necessario che vi sia stato un vero e proprio accordo tra i due, così come irrilevante è il fatto che il privato cittadino abbia solo accettato il vantaggio, essendo consapevole della sua ingiustizia. Come evidenziato dalla giurisprudenza: “Nel reato di abuso di ufficio, la partecipazione dell'extraneus può essere configurata quando sia provato l'accordo criminoso, che non può essere desunto solo dalla presentazione di un'istanza volta ad ottenere l'atto illegittimo, essendo invece necessaria la prova che la presentazione della domanda sia stata preceduta, accompagnata o seguita da un'intesa o da pressioni dirette a sollecitare o persuadere il pubblico funzionario” (Cass. Pen., sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 2844, in Cass. pen., 2005, p. 49).
Per ottenere la prova processuale dell’esistenza del concorso è, quindi, necessario valutare determinati elementi quali, ad esempio, la sussistenza di un rapporto amicale o politico, al contesto sociale nel quale si svolge il fatto, alla palese illegittimità della richiesta da parte del privato.
L’orientamento giurisprudenziale ritiene che una mera raccomandazione, anche se accolta, non possa integrare un concorso in abuso di ufficio, in mancanza di ulteriori elementi che abbiano effettivamente inciso sulla condotta del pubblico funzionario, in quanto costui sarebbe comunque libero di accettare o meno secondo il suo prudente apprezzamento.
11. Abuso di ufficio e servizio sociale
La tematica della responsabilità penale connessa allo svolgimento delle attività di servizio sociale è piuttosto complessa e delicata, in particolare per la delicatezza dell’attività svolta dall’operatore sociale. L’assistente sociale, infatti, molto spesso viene a contatto con esperienze di disagio, intrattenendo sovente rapporti con soggetti che si sono resi responsabili di reato, svolgendo un ruolo molto importante per il recupero ed il sostegno di persone che si trovano in stato di bisogno.
L’assistenza sociale viene ad identificarsi come quel complesso di attività, di prestazioni, di istituzioni, che la società organizzata mette a disposizione delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini per un’adeguata crescita sociale e individuale, le cui coordinate sono rappresentate: a) dalla prevenzione e dalla rimozione di situazioni di abbandono e di bisogno; b) dall’impegno al recupero di soggetti socialmente disadattati o affetti da minorazione psichica o sensoriale e al loro inserimento o reinserimento nel normale ambiente familiare o comunitario; c) dall’uguaglianza di prestazioni a parità di bisogni e dal superamento di distinzioni basate sulle categorie assistenziali e sul clientelismo.
Si consideri, inoltre, come l’attività di servizio sociale possa comportare, per il soggetto che la compie, l’assunzioni di particolari qualifiche soggettive, come quella di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, capaci di incidere significativamente sulla propria responsabilità penale, nonché sulla commissione di delitti contro la pubblica amministrazione.
12. Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio nel delitto di abuso d'ufficio
L’art. 323 c.p. delinea un reato “proprio”, in quanto non può essere commesso da chiunque, ma solo da colui il quale possieda, al momento del fatto, una determinata qualifica che, nella fattispecie, è indicata come quella di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio.
La nozione di pubblico ufficiale è sempre stata estremamente controversa sia in dottrina che in giurisprudenza, a causa della vaghezza delle definizioni normative, soprattutto nella formulazione originaria degli artt. 357 e 358 c.p.
In particolare, a differenza della funzione legislativa e di quella giudiziaria, il cui ambito è facilmente caratterizzabile, la funzione amministrativa non è agevolmente inquadrabile all’interno di uno schema tipico, in grado di caratterizzarla sia all’esterno che nei confronti di un pubblico servizio.
Ai sensi dell’art. 357 c.p., così come modificato dalla legge 86/1990 e dalla legge 181/1992, è pubblico ufficiale anche chi esercita una “pubblica funzione amministrativa”, funzione che viene definita dal comma successivo come quella “disciplinata da norme di diritto pubblico e da altri atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi.
La funzione amministrativa, quindi, viene definita sulla base di parametri esterni ed interni. I parametri esterni consistono nella regolamentazione di essa da parte di norme di diritto pubblico e di atti autoritativi, mentre gli elementi di riconoscimento interno consistono nello svolgimento di funzioni relative all’attività di formazione e manifestazione della volontà dell’amministrazione pubblica e nell’esercizio di poteri autoritativi o certificativi.
Nel novero dei poteri autoritativi non rientrano solo i poteri coercitivi, ma anche tutte le attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti del cittadino, ovvero di un soggetto che non si trova su un piano di sostanziale parità rispetto all’autorità. “Ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 c.p., debbono ritenersi rientranti nelle previsioni della norma incriminatrice soltanto le condotte che siano comunque riconducibili alle funzioni di ordine pubblicistico affidate all'agente, anche se risultino violati i limiti e le condizioni del loro esercizio, mentre, quando si tratti di attività proprie di una funzione del tutto estranea alla sfera di attribuzioni del soggetto, può ravvisarsi, ove ne ricorrano i presupposti, solo la diversa ipotesi di reato di cui all'art. 347 c.p. (usurpazione di funzioni pubbliche)” (Cass. Pen., sez. VI, 12 novembre 2001, n. 45265, in Riv. pen., 2002, p. 213).
Rientrano all’interno dei poteri certificativi tutte le attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria.
L’art. 358 c.p. definisce l’incaricato di un pubblico servizio come colui che presta un servizio pubblico, inteso quale attività disciplinata nelle medesime forme della pubblica funzione, ma in assenza dei poteri tipici di quest’ultima che sono, in particolare, la formazione o la manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, nonché lo svolgimento dei poteri posti in essere per mezzo di poteri certificativi o autoritativi.
Si potrà trattare di attività a carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri propri della pubblica funzione, con la quale è solo in rapporto di accessorietà o complementarietà.
13. (segue) La problematica dell’operatore sociale
L’assistente sociale, ai sensi della legge n. 84 del 23 marzo 1993, è un professionista che opera con autonomia tecnico-professionale e di giudizio, in tutte le fase dell’intervento per la prevenzione, il sostegno ed il recupero di persone, famiglie, gruppi e comunità in situazione di bisogno e di disagio, potendo anche svolgere, a tal proposito, attività formativa o didattica.
In tal senso l’operatore sociale svolge compiti di gestione, concorrendo all’organizzazione ed alla programmazione e esercitando, all’occorrenza, attività di coordinamento e direzione dei Servizi Sociali.
La domanda che ci dobbiamo porre è quando si può ritenere che un assistente sociale eserciti una funzione disciplinata da norme di diritto pubblico, in modo da rivestire la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio?
A seguito della riforma del 1990, ciò che rileva per quanto attiene all’assunzione di dette qualifiche, è esclusivamente la natura delle funzioni esercitate in concreto, ovvero delle mansioni specificamente svolte (si parla, infatti di “funzione-oggettiva”). In altre parole la funzione è pubblica in tutti i casi in cui questa è disciplinata da norme di diritto pubblico o che siano espressione di potestà pubbliche.
Così, ad esempio, potrà ritenersi pubblica la funzione svolta da un operatore sociale alle dipendenze dello Stato (prefettura) o di un ente pubblico territoriale (una ASL, provincia, comune, comunità montana), mentre non potrà assumere tale caratteristica l’attività esercitata da un assistente sociale che operi quale libero professionista, ad esempio svolgendo attività di consulenza per una ditta privata.
In realtà, però, non è tanto il rapporto di dipendenza con l’ente pubblico ad assumere rilievo, quanto la funzione concretamente esercitata. Infatti, anche il soggetto privato dovrà essere ritenuto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico esercizio nel caso in cui svolga un servizio pubblico, come nel caso dell’assistente sociale il quale, fuori da qualsiasi rapporto di lavoro subordinato con un ente pubblico, venga chiamato a far parte di una commissione giudicatrice per il superamento dell’esame di Stato per l’iscrizione ad un albo professionale.
Quanto detto riguarda la c.d. delimitazione esterna della pubblica funzione, ovvero quella che la distingue dall’attività privata.
Per quanto attiene alla delimitazione interna, diretta a verificare quando un soggetto, nell’esercizio di tale attività, assuma la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, bisogna fare riferimento, ancora una volta, agli artt. 357 e 358 c.p. Sulla base di tali norme evinciamo che la funzione è pubblica quando il soggetto concorre a formare o a manifestare la volontà della pubblica amministrazione, oppure svolge le proprie mansioni per mezzo di poteri autoritativi (ad esempio emettendo ordini che pongono il soggetto privato in una posizione di subordinazione) o certificativi (quando una determinata situazione viene definita come certa dall’operatore).
Per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità, merita di accennare ad una pronuncia, non molto recente (Cass. Pen., sez. VI, 19 ottobre 1982, in Cass. pen., 1984, p. 557), con la quale si riteneva pubblico ufficiale l’assistente sociale dell’amministrazione penitenziaria, dal momento che egli concorre, con le proprie relazioni al direttore del carcere o al giudice di sorveglianza, a formare la volontà della pubblica amministrazione, come nel caso in cui costui emani un provvedimento di trasferimento di un detenuto da un istituto penitenziario ad un altro, oppure conceda una misura alternativa alla detenzione, e ciò anche negli interventi che costituiscono un presupposto non vincolante del provvedimento del giudice.
Cosa accade nel caso in cui l’assistente sociale operi all’apice dell’organizzazione del Servizio Sociale? Non è raro, infatti, che l’operatore sociale sia impiegato a livello medio-alto presso gli Enti locali (si pensi alla dirigenza nel settore amministrativo o contabile, al settore socio-sanitario, ad incarichi di alta professionalità) oppure in organismi di controllo (Revisori del Conto, Uffici di controllo interno di gestione, Commissioni mediche di verifica riguardo agli invalidi civili).
Si è sostenuto, ad esempio, che il dirigente di un servizio sociale che predispone i turni di lavoro dei colleghi e firma i fogli per la concessione delle ferie deve essere considerato, in relazione a questi atti, come pubblico ufficiale. Si parlerà di incaricato di pubblico servizio nel caso in cui la funzione pubblica sia esercitata al di fuori dei poteri autoritativi o certificativi, sempre che il soggetto non eserciti mere mansioni di ordine, o esecutive, o materiali, come il centralinista o un usciere.
Certa giurisprudenza di merito (Trib. Isernia, 16 luglio 1999) ha ritenuto incaricato di pubblico servizio il presidente di una “casa famiglia” che gestisce attività di assistenza a malati psichiatrici, trattandosi di attività finanziata dallo Stato e sottoposta a controlli pubblici.
Il giudice nomofilattico ha affermato che l’amministratore, anche di fatto, di un’associazione che svolge attività di recupero di soggetti tossicodipendenti, che sia beneficiaria di erogazioni finanziarie pubbliche vincolate, assume la qualifica di incaricato di pubblico servizio, in relazione all’attività di gestione della suddetta comunità (Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 2009, n. 44501, in Ced, rv. 245007).
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Bibliografia essenziale:
AA.VV., Codice penale, I, T. Padovani, (a cura di), Milano, 2014.
Antolisei F., Manuale di diritto penale, Parte speciale, II, Milano, 2003.
Contieri E., (voce) Abuso innominato d'ufficio, in Enc. Dir., I, Milano, 1958, p. 187.
Fiandaca G. - Musco E., Diritto penale, Parte speciale, I, Bologna, 2006.
Manfredi Parodi G., (voce) Abuso innominato di ufficio, in Dig. Disc. Pen., I, Torino, 1987, p. 41.
Pagliaro A., Principi di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2000.
Riccio S., (voce) Abuso di ufficio, in Noviss. Dig. It., I, Torino, 1957, p. 107.