Associazione in partecipazione

AltalexPedia, voce agg. al 07/02/2013

Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto (art. 2549, co. 1, c.c.).

1.Premessa

2. Disciplina civilistica

2.1 L’associazione in partecipazione (art. 2549 c.c.). Nozione e natura

2.2 Il rapporto

2.3 Rapporti con altri istituti

2.4 La cointeressenza (propria e impropria)

3. Disciplina fiscale

3.1 Associazione in partecipazione e cointeressenza impropria

3.2 Cointeressenza propria

Bibliografia

1. Premessa

Il presente contributo si pone come obiettivo quello di ricostruire, senza pretese di esaustività, i tratti principali degli istituti dell’associazione in partecipazione e del contratto di cointeressenza, sia nella loro veste di figure contrattuali sia in quella di fonti autonome di reddito imponibile.

L'associazione in partecipazione ed il contratto di cointeressenza (almeno, nella forma di “cointeressenza impropria”), disciplinati dagli artt. 2549 e ss. c.c., costituiscono dei raffinati strumenti di finanziamento dell’impresa, alternativi sia alle operazioni di raccolta di capitale attraverso l’ampliamento della base societaria sia all’indebitamento con soggetti istituzionali esterni.

Rispetto alla prima ipotesi, infatti, i contratti in questione consentono di raccogliere capitale da un soggetto esterno senza dover modificare gli assetti di potere interni all’impresa, cosa che invece necessariamente avviene ogni volta che è richiesto un apporto di capitale da parte dei soci.

Rispetto alla seconda ipotesi, invece, l’associante (tranne che nel caso di cointeressenza impropria) ha il vantaggio di non essere obbligato a restituire il capitale versato dall’associato, poiché elemento essenziale dell’associazione in partecipazione è, oltre alla partecipazione agli utili, anche la partecipazione alle perdite, le quali, in caso di risultati negativi della gestione, ben potrebbero erodere l’intero importo conferito.

I contratti di associazione e di cointeressenza sono tuttora oggetto di un’attenta analisi da parte della giurisprudenza, soprattutto per la loro struttura causale, la quale pone spesso problemi di qualificazione rispetto ad altre forme contrattuali come, ad esempio, la società (anche occulta) ed il rapporto di lavoro subordinato.

I rapporti tra associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato, in particolare, sono ad oggi al centro di un dibattito dottrinale anche a seguito delle modifiche apportate all’art. 2549 c.c. dall’art. 1, co. 28, della L. n. 92/2012 (cd. “Riforma Fornero”).

2. Disciplina civilistica

2.1 L’associazione in partecipazione (art. 2549 c.c.). Nozione e natura

In prima approssimazione, trattasi di una forma di finanziamento da parte di un soggetto esterno ad una determinata attività, i cui proventi, ove sussistenti, costituiranno la controprestazione dell’apporto.

L’istituto, sconosciuto al diritto romano, sembra trovare origine nella commenda medievale, in base alla quale un commendator conferiva ad un tractator merci o denaro affinché ne facesse oggetto di commercio in nome proprio.

La legislazione codicistica francese, come pure le legislazioni italiane preunitarie, tesero a considerare l’istituto come una società occulta.

Si dovrà attendere il Codice Civile del 1942 per una sua compiuta disciplina.

Per ciò che concerne la natura del contratto, nonostante una dottrina minoritaria abbia ricondotto l’associazione in partecipazione tra i contratti associativi, prevale, in dottrina (GHIDINI, DE FERRA) come in giurisprudenza (Cfr. Cass. Civ., sentenza n. 1134/1968 e Cass. Civ., sentenza n. 4457/1986), la tesi per cui si tratterebbe di un contratto sinallagmatico, dal momento che l’associante mira a ottenere un apporto per finanziare la propria azienda, mentre l’associato intende conseguire un guadagno.

Appare chiaro fin da subito che il “guadagno” che spetterà all’associato è necessariamente dipendente dall’andamento dell’affare, pertanto, in relazione alla sua posizione contrattuale, è possibile parlare di contratto aleatorio: ciò perché, almeno nell’ipotesi di associazione in partecipazione (ma, si noti, non di cointeressenza impropria), l’associato potrebbe, in caso di gestione negativa, non conseguire utili ed eventualmente perdere il proprio apporto, dal momento che egli concorrerà anche alle perdite.

In relazione alla natura dell’apporto dell’associato, esso può consistere sia in capitale (denaro, beni mobili o immobili, crediti verso terzi o verso lo stesso associante, aziende, garanzie, diritti di godimento, ecc.), sia in una prestazione personale di carattere tecnico o professionale, in un servizio o in una combinazione di capitale e di lavoro.

L’associazione in partecipazione può configurarsi come contratto intuitu personae sia in relazione all’associato sia, più frequentemente, in relazione all’associante: ricorrerà la prima ipotesi qualora l’apporto dell’associato consista in una prestazione a carattere personale (ad es. prestazione d’opera professionale), ma più frequentemente sarà la personalità dell’associante a rilevare quale elemento determinante alla conclusione dell’accordo.

Trattasi poi di contratto consensuale e, di norma, a forma libera, salvo che con esso si conferiscano beni o diritti rientranti nell’art. 1350 c.c., in costanza dei quali occorrerà la forma scritta ad substantiam.

Se, infine, l’impresa dell’associante o dell’associato fosse soggetta a registrazione (salvi i casi già citati di cui all’art. 1350 c.c.) occorrerà la forma scritta ad probationem.

In sintesi, dunque, l’associazione in partecipazione è un contratto consensuale, sinallagmatico, unilateralmente aleatorio (per l’associato) e, di regola, a forma libera.

2.2 Il rapporto

L’art. 2550 c.c. dispone che “l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa o per lo stesso affare ad altra persona senza il consenso dei precedenti associati”.

In questa disposizione è stato ravvisato un elemento che ricondurrebbe l’associazione in partecipazione tra i contratti associativi, caratterizzati spesso dal necessario consenso degli associati all’estensione del vincolo ad altri soggetti; sennonché dei contratti associativi mancano altri elementi essenziali che impediscono al contratto in questione l’applicazione della relativa disciplina.

L’art. 2550 c.c. va oggi integrato anche con la disposizione di cui al nuovo secondo comma dell’art. 2549 c.c., in base al quale “(q)ualora l'apporto dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l'unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all'associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo”.

La nuova disposizione è volta a reprimere l’uso distorto ed elusivo, da parte degli imprenditori, dello strumento dell’associazione in partecipazione in violazione degli obblighi previdenziali e contributivi che questi necessariamente hanno nei confronti di chi svolge una prestazione di lavoro con vincolo di subordinazione.

A conferma di ciò, l’art. 2549, co. 2, c.c. contiene una presunzione assoluta in base alla quale “(i)n caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Il discrimen tra associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato è infatti una vexata quaestio su cui la giurisprudenza è periodicamente chiamata a pronunciarsi e sulla quale il legislatore del 2012 ha inteso intervenire a tutela del contraente debole.

Cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 21 febbraio 2012, n. 2496. L’argomento, data la sua complessità e per la copiosa produzione giurisprudenziale e dottrinale, non può che essere accennato nella presente sede e si rinvia, oltre che al paragrafo 2.3, ai lavori monografici ad esso dedicati, tra cui, recentemente, BUBOLA, PASQUINI, VENTURI.

L’art. 2551 c.c., sancendo che i terzi acquistano diritti e assumono obblighi solo verso l’associante, indirettamente sottolinea la valenza obbligatoria e interna del contratto di associazione in partecipazione.

L’associato, difatti, non può intraprendere rapporti di gestione verso terzi, dal momento che ciò lo renderebbe un “socio di fatto”.

È peraltro possibile un accordo (a rilevanza meramente interna) con cui l’associato partecipi alla gestione attraverso il consenso preventivo o successivo (ratifica) alle operazioni dell’associante che, tuttavia, resta l’unico titolare dell’impresa nei confronti dei terzi (art. 2552, co. 1 c.c.).

Ciò premesso, l’associato ha comunque diritto ad un rendiconto della gestione ai sensi dell’art. 2552, co. 3 c.c. e, in aggiunta, le parti possono pattuire ulteriori modalità di controllo della gestione da parte dello stesso (art. 2552, co. 2 c.c.).

L’art. 2553 cod. civ. disciplina la divisione degli utili e delle perdite sancendo due regole:

1- salvo patto contrario, l’associato partecipa alle perdite nella stessa misura in cui partecipa agli utili;

2- in ogni caso, le perdite a lui addossate non potranno mai superare l’ammontare dell’importo conferito.

Appare evidente come la ripartizione degli utili costituisca un elemento essenziale del contratto di associazione in partecipazione, mentre sarà liberamente negoziabile il quantum degli stessi.

In difetto di pattuizione, argomentando dallo stesso art. 2553 c.c., deve ritenersi, comunque, che la distribuzione degli utili avvenga proporzionalmente ai conferimenti apportati.

Oltre alla partecipazione agli utili la norma indica, a ben vedere, un ulteriore elemento essenziale dell’associazione in partecipazione, ossia la partecipazione alle perdite, in assenza della quale non si sarà più in presenza di questa figura contrattuale ma di quella, derivata, della cointeressenza impropria.

Sembra utile porre attenzione alle modalità di scioglimento del rapporto contrattuale.

A riguardo, pacifica è l’ammissibilità del decorso del termine e del mutuo dissenso.

In relazione al primo, autorevole dottrina ha osservato come il termine (eventualmente) apposto dalle parti vada inteso come riferito al rapporto di associazione tout court e non anche all’esercizio dell’impresa.

Si specifica, condivisibilmente, che l’associante non può ritenersi obbligato ad esercitare un’impresa ad ogni costo solo perché il contratto di associazione in partecipazione ha una certa durata.

L’associazione in partecipazione, in quanto contratto sinallagmatico, è soggetto ai rimedi previsti per questa categoria, primo tra tutti la risoluzione per inadempimento.

A tal riguardo, la dottrina considera inadempimento anche il cambio, da parte dell’associante, dell’oggetto dell’impresa o il trasferimento della sede all’estero.

La legge fallimentare, poi, prevede espressamente il fallimento dell’associante come causa di scioglimento dell’associazione in partecipazione (art. 77 L. Fall.).

In tutti i casi di scioglimento il contratto in questione prevede il diritto, in capo all’associato, della restituzione dell’apporto eventualmente aumentato degli utili non ancora percepiti o diminuito delle perdite, ma queste, si ripete, non potranno superare l’importo del conferimento stesso (a riguardo cfr., ad es., Cass. Civ., sentenza n. 24376/2008; Cass. Civ., sentenza n. 15920/2007).

Nel caso l’apporto sia una prestazione lavorativa, sia la dottrina (cfr. Corte App. Firenze, sentenza 19 maggio 1977; in dottrina GALGANO) che la giurisprudenza hanno osservato, infatti, che l’unico rischio cui l’associato lavoratore si esporrà sarà quello di lavorare senza retribuzione, ma non potrà esigersi che egli esborsi denaro per partecipare alle perdite.

2.3 Rapporti con altri istituti

L’associazione in partecipazione, come anticipato, ha sollevato dibattiti in relazione alle somiglianze che, di fatto, può presentare con altri istituti tra cui, in primis, il contratto di società e quello di lavoro dipendente.

Basti ricordare che, in relazione al contratto di società, problemi di distinzione sorgono spesso quando all’associato sono conferiti compiti gestori (seppur a rilevanza interna) dell’impresa.

La dottrina (GALGANO) osserva che la rilevanza meramente interna dei poteri gestori non è sufficiente, ex se, ad escludere che si sia in presenza di una società poiché la stessa situazione si verifica, ad esempio, nelle società occulte.

Sarà opportuno, quindi, verificare di volta in volta, l’effettivo ruolo dell’associante all’interno dell’impresa e l’estensione del suo potere gestorio.

In ogni caso, la giurisprudenza sembra aver da tempo individuato, almeno in linea di principio, alcuni punti guida nella distinzione tra associazione in partecipazione e contratto di società: a differenza di quest’ultimo, infatti, il primo non prevede un fondo comune (cfr. Cass. Civ., sentenza n. 5353/1987) né attribuisce la titolarità dell’impresa all’associato, restando questa, come la responsabilità verso terzi, esclusivamente in capo all’imprenditore (cfr. Cass. Civ., sentenza n. 6610/1991).

L’istituto ha posto problemi di distinzione anche rispetto al rapporto di lavoro subordinato, soprattutto quando la retribuzione da questo prevista consista in una partecipazione agli utili dell’impresa.

È noto, infatti, che spesso l’associazione in partecipazione può celare un rapporto di lavoro subordinato, consentendo all’imprenditore di eludere le tutele giuslavoristiche previste per i dipendenti.

Una risalente giurisprudenza già sottolineava come nell’associazione in partecipazione difettano il vincolo di subordinazione/dipendenza gerarchica e la garanzia di guadagno tipici, invece, del rapporto di lavoro subordinato (cfr. Cass. Civ., sentenza n. 655/1999).

Di recente, la Cassazione ha individuato nell’effettiva partecipazione agli utili dell’impresa e nella consegna del rendiconto i tratti distintivi del primo contratto rispetto al secondo (cfr. Cass. Civ., sez. lavoro, sentenza 21 febbraio 2012, n. 2496).

Al fine di reprimere condotte elusive il D. Lgs. n. 276/2003 aveva espressamente stabilito che la mancanza di un’effettiva partecipazione e di adeguate erogazioni all'associato che presti la propria attività comporta il diritto, in favore di quest'ultimo, "ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato”.

Su questo tema, come già visto, si è inserita di recente la L. n. 92/2012 la quale all’art. 2549 c.c. ha introdotto, da un lato, la norma per cui il numero degli associati lavoratori impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre (salvo che questi siano legati da vincoli di coniugio, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo grado con l’associante), dall’altro la presunzione assoluta per la quale i contratti di associazione in partecipazione stipulati in violazione di tale divieto si presumono iuris et de iure contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Sempre la riforma del 2012 ha introdotto due ulteriori presunzioni (legali relative) volte ad invertire l’onere della prova dell’effettività dell’associazione in partecipazione, ovvero:

1- si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato le associazioni in partecipazione in cui l’associato non partecipi effettivamente agli utili dell’impresa;

2- si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato le associazioni in partecipazione in cui l’apporto dell’associato non sia connotato da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell'esercizio concreto di attività.

La nuova normativa non è rimasta esente da critiche tanto da far parlare di una volontà legislativa di far scomparire l’associazione in partecipazione dall’ordinamento (SCOFFERI).

2.4 La cointeressenza (propria e impropria)

Il contratto di cointeressenza agli utili rappresenta una figura affine e, in qualche misura, derivata dall’associazione in partecipazione, tanto che l’art. 2554 c.c. estende ad esso l’applicabilità degli artt. 2551 (in tema di diritti ed obbligazioni dei terzi) e 2552 c c. (in tema di diritti dell’associante e dell’associato).

Si possono individuare due tipologie di cointeressenza che la dottrina ha classificato come “impropria” (art. 2554, co. 1, prima parte, c.c.) e “propria” (art. 2554, co. 1, seconda parte, c.c.).

La cointeressenza impropria è quel contratto che attribuisce al cointeressato, a fronte di un apporto, la partecipazione agli utili di un’impresa (ma anche, secondo una lettura sistematica, di uno più affari, come specificato nell’art. 2549 c.c.) ma non la partecipazione alle perdite.

La cointeressenza propria è invece quel contratto che attribuisce al cointeressato la partecipazione sia agli utili sia alle perdite dell’impresa dell’associante ma senza il corrispettivo di un determinato apporto.

Per ciò che attiene la natura, la forma, l’oggetto della prestazione dei contratti di cointeressenza, valga quanto già illustrato in tema di associazione in partecipazione, con la precisazione che, nella cointeressenza impropria manca l’alea che invece caratterizza la prestazione che spetta all’associato.

L’aleatorietà è invece presente nella cointeressenza propria, laddove sarà richiesto al cointeressato un esborso in caso di perdite.

Anche per ciò che concerne la distinzione tra la cointeressenza e altri istituti la giurisprudenza ha spesso ricalcato le stesse argomentazioni svolte in merito all’associazione in partecipazione.

Due ulteriori precisazioni vanno fatte in relazione all’affinità tra la cointeressenza e il rapporto di lavoro subordinato: in primo luogo, l’art. 2554, co. 2, c.c. fa salva l’applicazione della disciplina del secondo in tutti i casi in cui come controprestazione sia pattuita la partecipazione agli utili; in secondo luogo e conseguentemente, non potranno porsi problemi di riqualificazione negoziale in rapporto di lavoro subordinato nei casi di cointeressenza propria poiché in essa non è previsto un apporto.

La distinzione tra cointeressenza “impropria” e “propria” emerge anche sotto il profilo della funzione negoziale (rectius, della causa): la dottrina ascrive alla prima funzione prevalente di finanziamento dell’impresa, data la presenza, come nell’associazione in partecipazione, di un apporto.

Alla seconda viene invece attribuita una funzione lato sensu assicurativa o, com’è stato anche detto, “parassicurativa”, volta a facilitare il collegamento tra imprese: si fa l’esempio di più imprenditori che reciprocamente si garantiscono, senza alcun apporto, nei confronti delle perdite che uno di essi possa avere in misura superiore agli altri (Cfr. DE LUCA, COGLIANDRO, D’AURIA, RONZA).

La dottrina non esclude, peraltro, che sia lecito un contratto atipico di sola partecipazione agli utili senza apporto il quale, tuttavia, qualora non presentasse i caratteri della reciprocità, costituirebbe una donazione e richiederebbe pertanto la forma di cui all’art. 782 c.c. (cfr. DE FERRA e WEIGMAN).

La disciplina della cointeressenza, come detto, è in gran parte la stessa dell’associazione in partecipazione, ma l’art. 2554 c.c. non richiama né l’art. 2550 (in tema di pluralità di contratti) né l’art. 2553 c.c. (in materia di divisione degli utili e delle perdite).

Ciò significa che, in relazione al primo articolo, nel caso di cointeressenza l’associante non dovrà ottenere il consenso dei cointeressati qualora voglia attribuire partecipazioni per la stessa impresa anche ad altri soggetti mentre, in relazione al secondo, le perdite che colpiscono il cointeressato (ciò che è possibile solo nella cointeressenza propria) possono ben superare, a differenza che nell’associazione in partecipazione, il valore del suo apporto.

3. Disciplina fiscale

3.1 Associazione in partecipazione e cointeressenza impropria

Dovendo procedere ad illustrare il trattamento fiscale dei contratti di cui agli artt. 2549 e ss. c.c., occorre effettuare due premesse.

In primo luogo, l’associazione in partecipazione e la cointeressenza impropria presentano la stessa disciplina fiscale, mentre la cointeressenza propria è assoggettata, secondo una lettura sistematica ormai pacificamente condivisa, ad un trattamento diverso.

L’assimilazione tra le prime due è dettata dalla necessità di evitare che l’associante possa porre in essere comportamenti elusivi attraverso i quali incanalare gli utili verso determinati soggetti con un rischio contenuto di perdite (che, si ricorda, saranno non superiori all’apporto in caso di associazione in partecipazione e nulle in caso di cointeressenza impropria).

A quest’esigenza risponde, infatti, l’indeducibilità, dal reddito d’impresa degli associanti, delle remunerazioni derivanti dai contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza ai soli utili (cd. “impropria”), salvo che l’apporto consista in prestazione d’opera o servizi (art. 109, co. 9, lett. b) del TUIR).

L’esclusione dall’indeducibilità (quindi la deducibilità) dei proventi derivanti da cointeressenza propria, invece, si ricava a contrario dalla lettura della norma, dove viene esplicitamente previsto un “apporto”, assente appunto in tale contratto.

La seconda premessa riguarda la natura dell’attività dell’associato/cointeressato, al mutare della quale varierà il trattamento fiscale dei relativi proventi.

A riguardo è determinante stabilire se l’associato/cointeressato consegua gli utili nell’esercizio di un’impresa commerciale, poiché, in tal caso, essi costituiscono tout court reddito d’impresa (in virtù della vis attractiva che questa categoria reddituale ha nei confronti delle altre) e, conseguentemente, seguono il relativo regime.

L'art. 48, co.1 del TUIR stabilisce che tutti i redditi di capitale (cui di norma vanno ascritti, come si dirà tra breve, i proventi derivanti dai contratti ex artt. 2549 e ss. c.c.) sono inclusi nel reddito d’impresa se percepiti nell’esercizio d’imprese commerciali.

Ciò premesso, riguardo alla posizione reddituale del percipiente (associato/cointeressato), l’art. 44, co. 1, lett. f) del TUIR considera, appunto, redditi di capitale “gli utili derivanti da associazioni in partecipazione e dai contratti indicati nel primo comma dell'articolo 2554 del codice civile, salvo il disposto della lett. c) del co. 2 dell'art. 53”.

La clausola di salvaguardia finale fa riferimento all’ipotesi in cui l’apporto sia costituito esclusivamente da lavoro, nel qual caso gli utili derivanti da questi contratti andranno considerati come reddito da lavoro autonomo. giurisprudenziale e dottrinale, non può che essere accennato nella presente sede e si rinvia, oltre che al par. 2.3, ai lavori monografici ad esso dedicati, tra cui, recentemente, BUBOLA, PASQUINI, VENTURI.

E’ possibile dunque concludere che gli utili dei contratti in questione costituiscono reddito di capitale (o di lavoro autonomo se l’apporto è costituito esclusivamente da lavoro) per tutti quei soggetti che non producono reddito d’impresa, ovvero:

  • persone fisiche non imprenditori (o, se imprenditori, limitatamente ai beni non appartenenti all’impresa);
  • associazioni e società semplici;
  • enti non commerciali;
  • soggetti non residenti senza stabile organizzazione in Italia.

Ciò premesso, se il percettore rientra in una di queste categorie, il regime di tassazione degli utili derivanti dai contratti di associazione e cointeressenza varia a seconda dell’entità dell’apporto e della residenza fiscale dell’associante.

Per questi soggetti, le remunerazioni percepite (non soltanto maturate, vigendo, per i redditi da capitale, il principio di cassa) nel periodo d’imposta concorrono (seppur non integralmente) alla formazione del reddito imponibile qualora la partecipazione nell’impresa o nell’affare sia qualificata.

La partecipazione si considera qualificata qualora il valore dell’apporto sia superiore al 5% (se l’associante è una società quotata) o al 25% (se l’associante è una società non quotata) rispetto al valore del patrimonio netto contabile alla data di stipula del contratto.

In tal caso, i proventi suddetti concorrono a formare la base imponibile nella misura del 49,72% (art. 47, co. 2 del TUIR).

Se invece l’apporto è inferiore alle soglie suddette (partecipazione non qualificata), i proventi non concorrono alla formazione della base imponibile ma sono assoggettati ad un regime fiscale sostitutivo con ritenuta a titolo d’imposta del 20% (per combinato disposto dell’ art. 3, co. 3, lett. a) del TUIR e dell’art. 27, co. 1, d.P.R. n. 600/1973).

L’art. 47, co. 4 del TUIR riserva, poi, un deteriore trattamento fiscale agli utili derivanti da società residenti in Paesi o territori a regime fiscale privilegiato (cd. “Paesi black list”), stabilendo che essi concorrono integralmente a formare la base imponibile del percettore.

Quando costituiscono redditi da capitale, gli utili derivanti da associazione in partecipazione e da cointeressenza impropria verranno imputati per cassa (art. 47 del TUIR).

Qualora sia l’associante che l’associato/cointeressato (in caso di cointeressenza impropria) esercitino un’impresa commerciale e siano soggetti IReS, gli utili (in tal caso qualificati come reddito d’impresa e non di capitale) non concorrono a formare il reddito imponibile per il 95% del loro ammontare (restando dunque imponibile soltanto il 5% di essi, art. 109, co. 9, lett. b) del TUIR richiamato dall’ art. 89, co. 2 in materia di dividendi).

Anche per questi soggetti l’imputazione avviene per cassa, dal momento che, nell’ambito del reddito d’impresa, gli utili derivanti da questi contratti seguono il regime dei dividendi (art. 89, co. 2 del TUIR).

Si ricordi quanto detto in relazione all’associante, per il quale non sono deducibili le remunerazioni dovute relativamente ai contratti di associazione in partecipazione e a quelli di cui all’art. 2554 c.c. allorché sia previsto un apporto diverso da quello di opere servizi (art. 109, co. 9, lett. b) del TUIR).

Per ciò che concerne, infine, le plusvalenze derivanti dalla cessione dei contratti in questione, esse costituiscono redditi diversi (art. 67, co. 1, lett. c) del TUIR) in capo al percettore qualora questi non eserciti un’attività commerciale, nel qual caso costituiscono redditi d’impresa.

3.2 Cointeressenza propria

Resta ora da illustrare il regime fiscale della cointeressenza propria, contratto in base al quale ad una partecipazione agli utili e (illimitatamente) alle perdite non corrisponde nessun apporto.

Richiamando le distinzioni già illustrate, si tenga presente che anche gli utili derivanti da cointeressenza propria costituiscono redditi di capitale per tutti i soggetti che non esercitano un’attività commerciale, concorrendo altrimenti alla determinazione del reddito d’impresa.

A seguito della riforma fiscale contenuta nel D. Lgs. n. 344/2003, la prassi è intervenuta, in più occasioni, per interpretare la nuova normativa: si ricordano, a riguardo, la circolare dell’Amministrazione finanziaria n. 26/E del 16.06.2004, la risoluzione n. 62 del 16.05.2005, nonché la circolare dell’Assonime n. 32 del 14.07.2004.

Secondo la ricostruzione presente nei documenti citati, gli utili derivanti dai contratti di cointeressenza propria concorrono integralmente, per la quota di competenza, a formare il reddito imponibile del percettore e, specularmente, sono integralmente deducibili in capo alla società cointeressante.

In relazione al primo aspetto, la tassazione piena dev’essere dedotta dal fatto che la cointeressenza propria non è richiamata dall’ art. 47, co. 2 del TUIR il quale, a sua volta, richiama soltanto i contratti di cui all’ art. 109, co. 9, lett. b) (dove si parla di “apporto”).

Nel considerare la piena deducibilità, per lo stesso motivo, la cointeressenza propria viene in sostanza equiparata all’associazione in partecipazione con apporto di opere o servizi, esplicitamente esclusa dall’indeducibilità ex art. 109, co. 9, lett. b) del TUIR.

Per quanto attiene al criterio d’imputazione degli utili derivanti dal contratto di cointeressenza propria, occorre, ancora una volta, distinguere se essi vengono conseguiti o meno nell’esercizio di un’attività commerciale: nel primo caso, non essendo ad essi applicabile il regime dei dividendi (poiché questo contratto non è richiamato dall’ art. 89, co. 2 del TUIR) si applica la regola generale del reddito d’impresa di cui all’ art. 109, co. 1 del TUIR, ossia il principio di competenza.

Nel secondo caso, invece, si applica comunque il criterio d’imputazione previsto per i redditi di capitale, ovvero il principio di cassa.

Infine, così com’è stato già illustrato per l’associazione in partecipazione e per la cointeressenza impropria, anche in caso di cointeressenza propria le plusvalenze derivanti dalla cessione del contratto costituiscono redditi diversi (art. 67, co. 1, lettere c bis) e c quinquies) del TUIR), salvo che siano conseguite nell’esercizio di un’attività commerciale, nel qual caso costituiscono reddito d’impresa.

Bibliografia

· BUBOLA, PASQUINI, VENTURI, L’associazione in partecipazione con apporto lavorativo, in MAGNANI, TIRABOSCHI, La nuova riforma del lavoro. Commentario alla L. 28 giugno 2012, n. 92, Milano, 2012, pag. 182 ss.;

· DE LUCA, COGLIANDRO, D’AURIA, RONZA, Dei singoli contratti, vol. II, Milano, 2002;

· DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2011;

· FALSITTA, Manuale di diritto tributario - Parte speciale, Padova, 2012;

· GALGANO, Trattato di Diritto Civile, vol. IV, Padova, 2012;

· GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2011;

· SCOFFERI, Riforma Fornero: associazione in partecipazione addio!, in www.dirittoegiustizia.it, 11.07.12.

Codici e Ebook Altalex Gratuiti

Vedi tutti