La responsabilità del gestore di un maneggio
Abstract
Il presente parere affronta la questione della responsabilità extracontrattuale connessa con l’attività equestre nell’ipotesi in cui il danneggiato sia un principiante.
Si tratta, dunque, di stabilire se la disciplina applicabile sia quella prevista dall’art. 2050 ovvero dall’art. 2052 c.c.
La traccia d'esame
Tizia, cavallerizza principiante, si recava saltuariamente presso il Circolo Ippico “Alfa”, dove le venivano impartite delle lezioni di equitazione. Durante lo svolgimento di una esercitazione, a causa dell’imbizzarrimento del cavallo che montava (che già prima dell’inizio della esercitazione aveva dato evidentissimi segni di nervosismo) veniva scaraventata per terra riportando gravi lesioni personali.
Premesso che al momento dell’iscrizione, Tizia aveva sottoscritto un contratto contenente una clausola di esonero di responsabilità in favore del gestore del Circolo Ippico “Alfa” (nonché proprietario dei cavalli ivi utilizzati), preoccupata di non poter ottenere il risarcimento dei danni subiti, decide di rivolgersi ad un legale di sua fiducia.
Il candidato, assunte le vesti del difensore di Tizia, rediga parere motivato chiarendo in particolare se la responsabilità del proprietario del maneggio sia inquadrabile nell’ambito della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. ovvero in quella per i danni cagionati da animali di cui all’art. 2052 c.c..
Leggere la traccia: oggetto, rischi e accorgimenti
Al candidato viene chiesto di interrogarsi in merito alle questioni giuridiche che di seguito si evidenziano tra parentesi.
“Tizia, cavallerizza principiante, si recava saltuariamente presso il Circolo Ippico “Alfa”, dove le venivano impartite delle lezioni di equitazione [La gestione del maneggio e la responsabilità ex art. 2050 c.c.]. Durante lo svolgimento di una esercitazione, a causa dell’imbizzarrimento del cavallo che montava (che già prima dell’inizio della esercitazione aveva dato evidentissimi segni di nervosismo) veniva scaraventata per terra riportando gravi lesioni personali [La responsabilità del centro ippico e l’art. 2052 c.c.].
Premesso che al momento dell’iscrizione, Tizia aveva sottoscritto un contratto contenente una clausola di esonero di responsabilità in favore del gestore del Circolo Ippico “Alfa” (nonché proprietario dei cavalli ivi utilizzati), preoccupata di non poter ottenere il risarcimento dei danni subiti, decide di rivolgersi ad un legale di sua fiducia [Clausole di esonero da responsabilità].
Il candidato, assunte le vesti del difensore di Tizia, rediga parere motivato chiarendo in particolare se la responsabilità del proprietario del maneggio sia inquadrabile nell’ambito della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex art. 2050 c.c. ovvero in quella per i danni cagionati da animali di cui all’art. 2052 c.c..”
Istituti giuridici
La gestione del maneggio e la responsabilità ex art. 2050 c.c.
Il problema generato dall’accresciuta esposizione al pericolo di persone e di beni ha comportato l’emersione, accanto ad una generale “responsabilità da condotta”, di una “responsabilità da accadimento”, che sembra trovare nell’antica regola germanica del “chi fa un danno, deve risarcirlo” la propria fonte di ispirazione. Non si può, del resto, negare che l’odierna coscienza sociale avverte fortemente la necessità di addebitare al soggetto che trae vantaggio da una qualche situazione, la responsabilità dei rischi che da essa derivano, a prescindere da ogni sua colpa. In questo senso la regola della responsabilità oggettiva risponde ad un generale principio di equità e giustizia, a tenore del quale il rischio di danni a terzi, inevitabilmente connesso ad un’attività o ad una cosa, deve essere sopportato da chi esercita quell’attività o utilizza quella cosa. Questo breve excursus sulla crisi della responsabilità per colpa serve ad introdurre il tema della responsabilità per la gestione di impianti sportivi con l’impiego di animali che, appunto, comporta l’insorgere di almeno due diverse specie di responsabilità, rientranti entrambe nell’alveo della responsabilità oggettiva: la responsabilità per esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.) e responsabilità per danni prodotti da animali (art. 2052 c.c.). La fattispecie di responsabilità disciplinata dall’art. 2050 c.c. è stata introdotta, per la prima volta dal Codice del 1942, con l’intento di sottrarre alla regola dell’art. 2043 c.c. il fenomeno delle attività pericolose, che aveva cominciato ad assumere proporzioni tali da rendere opportuna la previsione da parte del legislatore di un’apposita disciplina, in un’ottica di tutela del danneggiato. E’ stato così introdotto un regime di responsabilità maggiormente rigoroso rispetto alle regole generali, essendo previsto dall’art. 2050 c.c. che “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. La circostanza che il legislatore faccia riferimento ad una “attività”, porta a ritenere presupposto della responsabilità in esame la sussistenza di un minimo di continuità di atti e di predisposizione di mezzi: non sarà pertanto sufficiente ad integrare tale nozione un atto isolato, ancorché molto pericoloso. L’attività deve poi essere “pericolosa”. Poiché, astrattamente, ogni attività umana reca in sé un più o meno elevato grado di rischio, si rende necessario stabilire in base a quali parametri un’attività debba essere qualificata come pericolosa. L’art. 2050 indica a tal fine due criteri: la natura dell’attività e la qualità dei mezzi adoperati. La norma in esame troverà pertanto applicazione sia in caso di attività oggettivamente pericolose che nel caso di attività che, pur non essendo oggettivamente pericolose, possono diventarlo in conseguenza del particolare tipo di strumenti adoperati dall’esercente. Si distingue tra attività pericolose tipiche ed attività pericolose atipiche. Nella prima categoria rientrano quelle contemplate da specifiche disposizioni normative. Nella seconda categoria, invece, trovano collocazione quelle attività il cui carattere rischioso è rimesso alla valutazione dell’interprete. Dottrina e giurisprudenza hanno fornito alcuni criteri generali in base ai quali valutare la pericolosità di una attività: tra questi, spiccano la frequenza statistica con cui da un certo tipo di attività può derivare un certo tipo di danno, e la gravità dei danni che l’attività in astratto può causare. Si tratta, dunque, di due criteri che concorrono a formare un giudizio quanti-qualitativo sull’attività in esame (cfr. FRANZONI, L’illecito, Milano 2004, 358). In particolare, la pericolosità dell’attività deve essere apprezzabile in un momento anteriore rispetto all’evento dannoso, in modo da consentire all’operatore la predisposizione di adeguate misure di prevenzione. È, quindi, necessario effettuare una verifica ex ante per valutare se una determinata attività aveva insita una rilevante probabilità di danno e non ex post, con un giudizio basato sulla gravità ed entità del danno in concreto verificatosi. È necessario, infine, che il danno sia causalmente riconducibile all’attività pericolosa esercitata, con la conseguenza che l’art. 2050 c.c. non ricomprende nel suo ambito quei danni che non si pongono in rapporto immediato con il carattere rischioso dell’attività stessa. Il nesso di causalità risulterà interrotto nel caso del fatto del danneggiato, nel caso del fatto del terzo oppure nel caso di una causa estranea non imputabile alla sfera giuridica dell’esercente. L’art. 2050 c.c. prevede che ci si libera da responsabilità solo provando di “avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”: la prova liberatoria non verte dunque sulle modalità del fatto che ha cagionato il danno, ma sulle modalità di organizzazione dell’attività pericolosa, che debbono apparire idonee a prevenire eventuali danni. In realtà, poiché si verte in materia di responsabilità oggettiva, la vera prova liberatoria, al dunque, potrà raggiungersi solo dimostrando che il danno è dovuto ad un evento non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, ossia che il danno è dovuto ad un caso fortuito. Tornando al tema che ci interessa più da vicino, occorre osservare come l’equitazione sia stata considerata attività pericolosa solo in alcune delle sue estrinsecazioni. La giurisprudenza predica, infatti, l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. soltanto laddove l’esperienza del fantino, le caratteristiche del percorso o il comportamento dell’animale montato comportino una maggiore esposizione al rischio di incidenti (cfr. Cass., 4 dicembre 1998, n. 12307). Emblematica, a tal riguardo, è Cass. civ. Sez. III, 24 settembre 1998, n. 9581 secondo cui: “il gestore del maneggio, in quanto proprietario o utilizzatore dei cavalli che servono per l’esercitazione, è soggetto, per i danni subiti dagli allievi durante le esercitazioni eseguite sotto la sorveglianza e la direzione di un istruttore ed in condizioni, quindi, che privano il cavaliere della disponibilità dell’animale, alla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052 c.c., e non a quella di cui all’art. 2050 dello stesso codice, a meno che non si tratti di danni conseguenti alle esercitazioni di principianti, ignari di ogni regola di equitazione, o di allievi giovanissimi la cui inesperienza, e conseguente incapacità di controllo dell’animale, imprevedibile nelle sue reazioni se non sottoposto ad un comando valido, rende pericolosa l’attività imprenditoriale di maneggio. Ne consegue che l’attività di equitazione svolta all’interno di un circolo ippico, alla presenza di un istruttore, con cavalli collaudati ed addestrati ad essere montati da persona non esperta, con tracciati predeterminati e noti al cavallo e al cavaliere, da parte di persone che, in quanto allievi, vengono portate a conoscenza delle regole fondamentali dell’equitazione, non può, in linea di principio, proprio per tali caratteristiche, essere annoverata tra le attività pericolose di cui all’art. 2050 c.c., salvo l’accertamento, in fatto di specifiche caratteristiche proprie del caso concreto, idonee obiettivamente a rendere pericoloso lo svolgimento dell’attività equestre”. |
La responsabilità del centro ippico e l’art. 2052 c.c.
Ai sensi dell’art. 2052 c.c., “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”. Il primo presupposto della responsabilità per i danni da animali è che il danno sia «cagionato» dall’animale, ossia il danno deve essere “conseguente” al comportamento dell’animale, con esclusione quindi dei casi in cui l’animale è un corpo inerte. Non potrà dunque, ad esempio, invocare questa norma chi inciampando su un cane accucciato si provochi lesioni personali, mentre potrà invocarla chi sia stato sbalzato dalla sella del proprio cavallo dall’azione recalcitrante del cavallo altrui (cfr. Trib. Milano, 10 ottobre 1985, in Resp. civ., 1986, pg. 172 nt. Scalfi). Secondo una pacifica lettura della norma, risulta del tutto irrilevante il requisito della pericolosità dell’animale, per cui la responsabilità in questione opererà anche se il danno proviene da un animale di indole mansueta. Il dettato normativo prevede, inoltre, che possano essere chiamati a risarcire i danni cagionati dall’animale solo il proprietario o l’utilizzatore dello stesso, i quali ne rispondono sia che l’animale fosse sotto la loro custodia sia che fosse smarrito o fuggito. Decisiva è dunque la qualità di proprietario o di utilizzatore, a nulla rilevando il fatto che costoro avessero affidato l’animale in custodia ad altri, potendosi in tale ipotesi esperire esclusivamente azione di regresso nei confronti del custode (Cass., 6 gennaio 1983, n. 75). La giurisprudenza più risalente attribuiva un fondamento soggettivo a tale responsabilità, riconoscendo a carico del proprietario o dell’utilizzatore dell’animale una presunzione di colpa (culpa in vigilando). In base a tale impostazione, utilizzatore dell’animale sarebbe colui sul quale incombe il dovere di vigilanza sull’animale, ovvero colui che ne ha il controllo, mentre la prova liberatoria dovrebbe consistere nella prova dell’assenza di colpa da parte di chi controlla l’animale, il quale dovrebbe dimostrare di aver diligentemente vigilato sul comportamento dell’animale stesso. La dottrina prevalente, invece, già da lungo tempo è orientata nel senso del carattere oggettivo della responsabilità in questione, per cui essa sorgerebbe in funzione della relazione del soggetto a cui viene imputata la responsabilità con l’animale, a nulla rilevando la colpa. Anche la giurisprudenza più recente ha condiviso detta ricostruzione, giungendo ad affermare che il proprietario di un animale risponde, ai sensi dell’art. 2052 c.c., sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma sulla base della mera relazione (di proprietà o di uso) intercorrente fra lui e l’animale, nonché del nesso di causalità sussistente tra il comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso, salvo prova del caso fortuito (ossia dell’intervento di un fattore esterno idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno) (cfr. Cass., 19 marzo 2007, n. 6454). |
Clausole di esonero da responsabilità Sebbene le parti possano prevedere in un contratto aggravamenti o attenuazioni della diligenza richiesta dal legislatore, è nullo, però, il patto che esclude o limita - preventivamente - la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave (art. 1229, primo comma, c.c.). Diversamente, infatti, l’adempimento verrebbe a dipendere, in buona sostanza, dal mero arbitrio dell’obbligato. Il fondamento del divieto va dunque ravvisato nell’esigenza di assicurare al creditore un minimo e inderogabile impegno diligente da parte del debitore. Le clausole di esonero o di limitazione non esonerano da responsabilità neppure in caso di colpa lieve, se il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di «obblighi derivanti da norme di ordine pubblico» (art. 1229, secondo comma, c.c.). Tali sono le norme che impongono obblighi al debitore non nel solo interesse del creditore, bensì anche nell’interesse generale; tali sono, ancora, le norme poste a presidio della integrità fisica, della sicurezza, della salute della persona e, in genere, dei diritti della personalità. Il principio contenuto nell’art. 1229 c.c. è valido anche nel campo della responsabilità extracontrattuale (Cass. 68/2240). |
Normativa di riferimento
La gestione del maneggio e la responsabilità ex art. 2050 c.c. | Codice civile Art. 2050 – Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose |
La responsabilità del centro ippico e l’art. 2052 c.c. | Codice civile |
Clausole di esonero da responsabilità | Codice civile |
Orientamenti giurisprudenziali
La giurisprudenza, al fine di inquadrare la responsabilità del gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi presenti, nell’ambito della previsione normativa di cui all’art. 2050 c.c. ovvero in quella di cui all’art. 2052 c.c. opera una distinzione a seconda che il soggetto danneggiato sia o meno un cavallerizzo principiante e/o inesperto.
Massime Commentate
Il caso del cavallerizzo principiante
Cass. civ., sez. III, sentenza 27.11.2015, n. 24211
«Come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di proposizione di domande nuove, ai fini della relativa ammissibilità nelle cause instaurate anteriormente all'entrata in vigore della L. n. 353 del 1990 l'accettazione del contraddittorio assume decisivo rilievo, in quanto il divieto di domande nuove in primo grado risponde (diversamente che in grado di appello) ad un interesse di tipo privato e non di ordine pubblico, trattandosi invero solamente di stabilire le modalità di detta accettazione (v. Cass., 27/9/2006, n. 20953). A tale stregua, con riguardo a procedimento come nella specie pendente alla data del 30 aprile 1995, la formulazione di domande nuove è in primo grado ammissibile fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, e non anche in comparsa conclusionale (cfr. Cass., 27/7/2004, n. 14121), e il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio, della controparte, che integra l'accettazione del contraddittorio (v. Cass., 19/3/2012, n. 4366). Orbene, avendo nel caso l'attore "invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.", nell'affermare che "il divieto di introdurre domande nuove (la cui violazione è rilevabile d'ufficio da parte del giudice) non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ai sensi dell'art. 2050 c.c. (esercizio di attività pericolose) o art. 2051 c.c. (responsabilità per cose in custodia) a meno che l'attore non abbia sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detti articoli (enunciazioni assenti nella fattispecie se si esamina l'atto di citazione di primo grado)", la corte di merito ha invero erroneamente ritenuto tardiva la domanda di condanna ex artt. 2050 e 2052 c.c. per essere stata dalla M. formulata per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni. Come dedotto dall'odierna ricorrente, emerge dagli atti di causa che in effetti "l'inquadramento della fattispecie sotto i canoni di cui ai citati articoli è stato espressamente compiuto per la prima volta con la comparsa di costituzione di nuovo procuratore (a firma dell'Avv. Giovanni Savigni, aggiuntosi al precedente difensore) depositata all'udienza del 15 febbraio 1999, nella quale alla pag. 2 è esplicitamente dedotto che "per quanto attiene il merito della controversia è indiscutibile che la stessa debba essere inquadrata nell'ambito degli artt. 2050-2052 c.c., con la conseguenza che incombe sulle controparti il gravoso onere di dimostrare nel primo caso di aver adottato tutte le cautele idonee ad evitare il danno, o nel secondo la sussistenza di un caso fortuito assolutamente non governabile. Tra l'altro i convenuti sono stati condannati in sede penale - sia pure mediante il meccanismo previsto dall'art. 444 c.p.c. - proprio per aver omesso di dotare di apposito cancello l'area di maneggio, il che la dice molto lunga sulla sussistenza di una responsabilità effettiva a loro carico. Nella fattispecie sembra applicabile proprio l'art. 2050 c.c. (cfr. comparsa di costituzione del 15.12.1999 a pag. 2, nella quale tuttavia non si escludeva l'inquadramento della vicenda "anche nel più generale ambito dell'art. 2043 c.c.")". Va sotto altro profilo posto in rilievo che, come questa Corte ha del pari già avuto modo di sottolineare, laddove in caso di allievi più esperti l'attività equestre è soggetta alla presunzione di responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. (con la conseguenza che spetta al proprietario od all'utilizzatore dell'animale che ha causato il danno fornire non soltanto la prova della propria assenza di colpa, ma anche quella che il danno è stato causato da un evento fortuito), il gestore del maneggio risponde viceversa quale esercente di attività pericolosa ex art. 2050 c.c. dei danni riportati dai soggetti partecipanti alle lezioni di equitazione qualora gli allievi siano come nella specie principianti, del tutto ignari di ogni regola di equitazione, ovvero giovanissimi (v. Cass., 19/6/2008, n. 16637). In altri termini, il gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti adibiti allo svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa ai sensi dell'art. 2050 c.c. dei danni riportati dai soggetti partecipanti qualora gli allievi siano cavallerizzi principianti o inesperti (v. Cass., 1/4/2005, n. 6888, ove si è ritenuto il gestore responsabile, per attività pericolosa, dei danni subiti da una giovane, titolare di una attestazione di idoneità psicofisica alla cavalcatura, che era caduta da cavallo nel corso della sua sesta lezione). Orbene, nel ritenere nel caso applicabile l'art. 2043 c.c., e non già l'art. 2050 c.c., pur movendo dal rilievo che "La giurisprudenza di legittimità non è univoca sulla responsabilità del gestore del maneggio in caso di infortuni durante le lezioni di equitazione. Un precedente orientamento le escludeva dal novero delle attività pericolose ... La giurisprudenza successiva distingue invece tra allievi principianti ed allievi esperti, facendo risiedere su tale distinzione in fatto un diverso paradigma di responsabilità rispettivamente ex artt. 2050 e 2052 con diverse implicazioni probatorie per il preteso responsabile dell'illecito", in ragione del decisivo rilievo assegnato all'erroneamente (alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto) ravvisata circostanza che "le prospettazioni ex artt. 2050 e 2052 c.c. rappresentano una inammissibile mutatio libelli, in quanto formulate nella comparsa conclusionale, privando l'avversario della possibilità della prova liberatoria prevista dalle singole fattispecie (il caso fortuito ex art. 2052 c.c. e l'adozione delle misure volte ad evitare il danno ex art. 2050 c.c.)", la corte di merito ha nell'impugnata sentenza invero disatteso i suindicati principi»; nello stesso senso anche Cass. civ. Sez. III, 01-04-2005, n. 6888 (espressamente richiamata dalla precedente pronuncia) secondo cui: «Il gestore del maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti, adibiti allo svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., dei danni riportati dai soggetti partecipanti, qualora gli allievi siano cavallerizzi principianti o inesperti. (Nella specie, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto il gestore responsabile, per attività pericolosa, dei danni subiti da una giovane, titolare di una attestazione di idoneità psicofisica alla cavalcatura, che era caduta da cavallo nel corso della sua sesta lezione)»; in arg. cfr inoltre Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10268 «Ai fini dell’applicazione dell’art. 2050 cod. civ., la valutazione in concreto se un’attività, non espressamente qualificata pericolosa da una disposizione di legge, possa essere considerata tale per la sua natura o la spiccata potenzialità offensiva dei mezzi adoperati, implica un accertamento di fatto secondo il criterio della prognosi postuma, in base alle circostanze esistenti al momento dell'esercizio dell’attività, rimesso in via esclusiva al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità ove correttamente e logicamente motivata. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto incensurabile l’applicazione dell’art. 2050 cod. civ. all’attività di noleggio di cavalli e di guida del cliente, svolta nei confronti di un soggetto di cui s’ignorava l’effettiva capacità ed esperienza, fuori dall’area attrezzata a maneggio e senza limiti nell’utilizzo dell’equino)» e Cass. civ., sez. III, 15 luglio 2008, n. 19449 «In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, la presunzione di colpa a carico del danneggiante, posta dall’art. 2050 cod. civ., presuppone il previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico, la cui prova incombe al danneggiato, tra l’esercizio dell’attività e l’evento dannoso; resta, poi, a carico del danneggiante l’onere di provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. (Nella specie la S.C. ha rigettato il ricorso proposto ritenendo irrilevante, ai fini della decisione, che la caduta dell’allieva fosse avvenuta a causa dell’andamento del cavallo o della rottura di uno staffile, che la danneggiata conducesse l’animale al passo o al galoppo e che la stessa fosse o meno preparata a farlo, in quanto era stato accertato che l’evento dannoso si era verificato in conseguenza dello svolgimento di un’attività pericolosa – l’esercizio ippico - e che il danneggiante non aveva offerto la prova liberatoria)» |
Gli allievi più esperti
Cass. civ., sez. III, sentenza 19.06.2008, n. 16637
Come anticipato, nel caso di allievi più esperti la giurisprudenza ritiene che «l’attività equestre sia soggetta, invece, alla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2052 cod. civ., con la conseguenza che spetta al proprietario od all’utilizzatore dell’animale che ha causato il danno di fornire non soltanto la prova della propria assenza di colpa, ma anche quella che il danno sia stato causato da un evento fortuito. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto il gestore responsabile, ex art. 2050 cod. civ., dei danni subiti da un’allieva principiante, che era stata colpita alla caviglia dallo zoccolo di un cavallo che, nella fila, seguiva immediatamente quello da lei cavalcato, ed avevano dichiarato la nullità, ai sensi dell’art. 1229, primo comma, cod. civ., della clausola di esonero da responsabilità sottoscritta dall’allieva, dovendosi escludere la colpa lieve in quanto le conseguenze lesive erano facilmente prevedibili, considerato che, pur avendo l’animale già dato segni di evidente nervosismo nel corso dell’esercitazione, con grave imprudenza e negligenza, gli istruttori non avevano provveduto alla immediata sostituzione dell’animale)» |
Scaletta
Nella proposta di svolgimento della traccia in esame è stato utilizzato il seguente schema di trattazione.
Svolgimento
La traccia proposta richiede di affrontare la questione della responsabilità extracontrattuale connessa con l’attività equestre nell’ipotesi in cui il danneggiato sia un principiante. Esulano dunque dalla presente trattazione i temi legati al possibile risarcimento dei danni correlati al rapporto contrattuale instaurato da Tizia con il Circolo equestre “Alfa” in relazione alle lezioni di equitazione impartite.
Si tratta, in sintesi, di stabilire se la disciplina applicabile al caso in questione sia quella prevista dall’art. 2050 ovvero dall’art. 2052 c.c.
Prima di affrontare il merito della questione, pare opportuno sottolineare come in alcuni casi, previsti dalla legge, un soggetto risponde per i danni a prescindere dal fatto che essi derivino causalmente da un suo specifico comportamento e dunque a prescindere dalla colpa o dal dolo che in base alla regola generale di cui all’art. 2043 c.c. dovrebbero colorare la sua condotta.
In via generale, occorre osservare come il problema generato dall’accresciuta esposizione al pericolo di persone e di beni ha comportato l’emersione, accanto ad una generale “responsabilità da condotta”, di una “responsabilità da accadimento”, che sembra trovare nell’antica regola germanica del “chi fa un danno, deve risarcirlo” la propria fonte di ispirazione.
Non si può, del resto, negare che l’odierna coscienza sociale avverte fortemente la necessità di addebitare al soggetto che trae vantaggio da una qualche situazione, la responsabilità dei rischi che da essa derivano, a prescindere da ogni sua colpa.
In questo senso la regola della responsabilità oggettiva risponde ad un generale principio di equità e giustizia, a tenore del quale il rischio di danni a terzi, inevitabilmente connesso ad un’attività o ad una cosa, deve essere sopportato da chi esercita quell’attività o utilizza quella cosa.
Questo breve excursus sulla crisi della responsabilità per colpa serve ad introdurre il tema della responsabilità per la gestione di impianti sportivi con l’impiego di animali che, appunto, comporta l’insorgere di almeno due diverse specie di responsabilità, rientranti entrambe nell’alveo della responsabilità oggettiva: la responsabilità per esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.) e responsabilità per danni prodotti da animali (art. 2052 c.c.).
La fattispecie di responsabilità disciplinata dall’art. 2050 c.c. è stata introdotta, per la prima volta dal Codice del 1942, con l’intento di sottrarre alla regola dell’art. 2043 c.c. il fenomeno delle attività pericolose, che aveva cominciato ad assumere proporzioni tali da rendere opportuna la previsione da parte del legislatore di un’apposita disciplina, in un’ottica di tutela del danneggiato.
E’ stato così introdotto un regime di responsabilità maggiormente rigoroso rispetto alle regole generali, essendo previsto dall’art. 2050 c.c. che “chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.
L’art. 2050 c.c. prevede, inoltre, che ci si libera da responsabilità solo provando di “avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”: la prova liberatoria non verte dunque sulle modalità del fatto che ha cagionato il danno, ma sulle modalità di organizzazione dell’attività pericolosa, che debbono apparire idonee a prevenire eventuali danni. In realtà, poiché si verte in materia di responsabilità oggettiva, la vera prova liberatoria, al dunque, potrà raggiungersi solo dimostrando che il danno è dovuto ad un evento non prevedibile né superabile con l’adeguata diligenza, ossia che il danno è dovuto ad un caso fortuito.
Ai sensi dell’art. 2052 c.c., invece, “il proprietario di un animale o chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso, è responsabile dei danni cagionati dall’animale, sia che fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito, salvo che provi il caso fortuito”.
Il primo presupposto della responsabilità per i danni da animali è che il danno sia «cagionato» dall’animale, ossia il danno deve essere “conseguente” al comportamento dell’animale risultando del tutto irrilevante il requisito della pericolosità dell’animale, per cui la responsabilità in questione opererà anche se il danno proviene da un animale di indole mansueta.
Il dettato normativo prevede, inoltre, che possano essere chiamati a risarcire i danni cagionati dall’animale solo il proprietario o l’utilizzatore dello stesso, i quali ne rispondono sia che l’animale fosse sotto la loro custodia sia che fosse smarrito o fuggito. Decisiva è dunque la qualità di proprietario o di utilizzatore, a nulla rilevando il fatto che costoro avessero affidato l’animale in custodia ad altri, potendosi in tale ipotesi esperire esclusivamente azione di regresso nei confronti del custode (Cass., 6 gennaio 1983, n. 75).
La giurisprudenza più risalente attribuiva un fondamento soggettivo a tale responsabilità, riconoscendo a carico del proprietario o dell’utilizzatore dell’animale una presunzione di colpa (culpa in vigilando).
In base a tale impostazione, utilizzatore dell’animale sarebbe colui sul quale incombe il dovere di vigilanza sull’animale, ovvero colui che ne ha il controllo, mentre la prova liberatoria dovrebbe consistere nella prova dell’assenza di colpa da parte di chi controlla l’animale, il quale dovrebbe dimostrare di aver diligentemente vigilato suo comportamento dell’animale.
La dottrina prevalente, invece, già da lungo tempo è orientata nel senso del carattere oggettivo della responsabilità in questione, per cui essa sorgerebbe in funzione della relazione del soggetto a cui viene imputata la responsabilità con l’animale, a nulla rilevando la colpa.
Anche la giurisprudenza più recente ha condiviso detta ricostruzione, giungendo ad affermare che il proprietario di un animale risponde, ai sensi dell’art. 2052 c.c., sulla base non già di un proprio comportamento o di una propria attività, ma sulla base della mera relazione (di proprietà o di uso) intercorrente fra lui e l’animale, nonché del nesso di causalità sussistente tra il comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso, salvo prova del caso fortuito (ossia dell’intervento di un fattore esterno idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprensivo anche del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato che abbia avuto efficacia causale esclusiva nella produzione del danno) (cfr. Cass., 19 marzo 2007, n. 6454).
Tornando al tema che ci interessa più da vicino, passiamo ora a chiederci quale sia il regime di responsabilità invocabile da parte di Tizia, e cioè se quello generale previsto dall’art. 2050 c.c. ovvero la disciplina specifica di cui all’art. 2052 c.c.
Occorre osservare come l’equitazione sia stata considerata attività pericolosa solo in alcune delle sue estrinsecazioni, sulla scorta di una valutazione che non potrà essere compiuta in astratto, ma accertata in base alle modalità con cui viene impartito l’insegnamento, alle caratteristiche degli animali impiegati ed alla qualità degli allievi. E va senz’altro adottato quale criterio orientativo quello di considerare pericolosa l’attività che consiste nell’impartire lezioni a principianti e fanciulli e non ad esperti.
La giurisprudenza, infatti, in più occasioni ha affermato che il gestore di un maneggio, proprietario o utilizzatore dei cavalli ivi esistenti, adibiti allo svolgimento di lezioni di equitazione da parte di allievi, risponde quale esercente di attività pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 c.c., dei danni riportati dai partecipanti qualora siano cavallerizzi principianti o inesperti (Cass. 27 novembre 2015, n. 24211) e, più in generale, ha predicato l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. soltanto laddove l’esperienza del fantino, le caratteristiche del percorso o il comportamento dell’animale montato comportino una maggiore esposizione al rischi di incidenti (cfr. Cass., 4 dicembre 1998, n. 12307).
E, dunque, nel caso specifico dovrà ritenersi certamente responsabile il gestore del maneggio, quale esercente un’attività pericolosa, per i danni riportati da Tizia a seguito della caduta da un cavallo imbizzarrito durante una lezione di equitazione.
Quest’ultima, invero, allieva principiante, è stata scaraventata a terra da un cavallo che già all’inizio dell’esercitazione aveva dato segni di evidente nervosismo senza che, per questo, si provvedesse alla sua immediata sostituzione.
D’altronde assegnare ad un allievo non esperto un animale potenzialmente nervoso è sicuramente condotta inidonea alla prevenzione del rischio.
Per altro verso, difficilmente potrà giovare al proprietario del maneggio la clausola sottoscritta da Tizia con cui lo si esonerava da ogni responsabilità connessa all’attività di equitazione svolta all’interno del Circolo.
Sebbene, infatti, le parti possano certamente prevedere in un contratto aggravamenti o attenuazioni della diligenza richiesta dal legislatore, è nullo, però, il patto che esclude o limita - preventivamente - la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave (art. 1229, primo comma, c.c.). Diversamente, infatti, l’adempimento verrebbe a dipendere, in buona sostanza, dal mero arbitrio dell’obbligato. Il fondamento del divieto va dunque ravvisato nell’esigenza di assicurare al creditore un minimo e inderogabile impegno diligente da parte del debitore.
Le clausole di esonero o di limitazione non esonerano da responsabilità neppure in caso di colpa lieve, se il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di «obblighi derivanti da norme di ordine pubblico» (art. 1229, secondo comma, c.c.). Tali sono le norme che impongono obblighi al debitore non nel solo interesse del creditore, bensì anche nell’interesse generale; tali sono, ancora, le norme poste a presidio della integrità fisica, della sicurezza, della salute della persona e, in genere, dei diritti della personalità.
Concludendo si può senz’altro affermare che Tizia potrà invocare l’art. 2050 c.c. per ottenere il risarcimento dei danni subiti nei confronti del proprietario dell’impianto ippico presso cui si era recata perché le venissero impartite delle lezioni di equitazione e ciò principalmente a cagione del fatto che, da un lato, la stessa era una cavallerizza principiante ed inesperta e, dall’altro lato, che pare non sussistano elementi per ipotizzare la presenza del caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità del gestore del maneggio, nei confronti del quale può, invece, addirittura adombrarsi la presenza di una colpa, per non aver sostituito il cavallo assegnato a Tizia in ragione del fatto che ben prima dell’inizio dell’esercitazione quest’ultimo aveva manifestato evidenti segni di nervosismo, rendendo quindi prevedibile quello che poi purtroppo è in effetti accaduto.