Nullità contrattuale può essere rilevata d'ufficio in sede di legittimità
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte torna ad occuparsi del rilievo d’ufficio della nullità in sede di legittimità, ribadisce la propria consolidata giurisprudenza in materia ed enuncia il seguente principio di diritto:
«Il rilievo officioso della nullità contrattuale – da parte del giudice di legittimità, ove sia mancato nei gradi del giudizio di merito - non attiene soltanto alle azioni di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento, rescissione), ma investe anche la domanda di risarcimento danni per inadempimento contrattuale che sia stata proposta in via autonoma da quella di impugnazione del presupposto contratto […]».
La vicenda scaturisce da un fatto risalente al lontano 1998. Un paziente citava in giudizio l’odontotecnico al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti per le cure dentistiche dallo stesso praticate in modo imperito. In primo grado erano accolte le doglianze dell’attore; mentre in appello veniva ammessa l’impugnazione proposta dall’odontotecnico. Si giungeva così al giudizio di Cassazione. L’attore fondava la propria domanda sull’illecito contrattuale da inesatta esecuzione della prestazione dedotta in obbligazione, senza far valere la risoluzione per inadempimento o la ripetizione dell’indebito per invalidità del rapporto[1]. Egli agiva unicamente al fine di ottenere il risarcimento del danno composto da due voci: la ripetizione delle somme versate all’odontoiatra per la prestazione mal eseguita ed il rimborso delle spese sostenute presso un altro professionista per porre rimedio agli interventi errati.
In primo ed in secondo grado, l’azione proposta dall’attore viene fatta rientrare nell’alveo della responsabilità contrattuale, come azione risarcitoria conseguente all’inadempimento di un contratto di prestazione d’opera professionale. A tal proposito, la Suprema Corte rileva come, su questo punto, si sia formato un giudicato interno; essa rileva, poi, la nullità del contratto di prestazione professionale a cui si riferisce la domanda azionata dall’attore, in virtù della consolidata giurisprudenza[2] secondo cui l’esecuzione di una prestazione d’opera professionale effettuata da chi non sia iscritto all’apposito albo previsto dalla legge[3] dà luogo ad una nullità assoluta, rendendo il contratto inefficace. Le Sezioni Unite, con la pronuncia 12 dicembre 2014 n. 26242, hanno statuito che il rilievo ex officio di una nullità contrattuale sia consentito in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale (adempimento, risoluzione, annullamento, rescissione), sempre che non sia individuata una “ragione più liquida”[4] di rigetto della domanda. Infatti, il principio di rilevabilità d’ufficio della nullità poggia sul presupposto di impedire che un contratto nullo possa costituire l’ubi consistam di una decisione giurisdizionale. Tutte le azioni di impugnativa del contratto, nonostante le differenze strutturali e di disciplina, si fondano sul fatto che, non sussistendo ragioni di nullità, il giudice proceda alla disamina della domanda di adempimento, di risoluzione, di rescissione, di annullamento e via discorrendo. Ne consegue che la valutazione della sussistenza della nullità assume il ruolo di una pregiudiziale logico-giuridica rispetto a tutte le altre azioni di impugnativa negoziale. Quindi il giudice che rilevi la nullità non sollevata dalla parte non dà luogo ad una pronuncia eccedente i limiti della causa. Invero, la rilevabilità d’ufficio della nullità rappresenta una deroga al principio dispositivo, in virtù del quale il giudicante può pronunciare solo su quanto richiesto dalle parti (ne eat iudex extra petitum partium art. 112 c.p.c.). La deroga al suddetto principio è da ravvisarsi nella gravità che l’ordinamento collega al contratto nullo, in quanto «confliggente con principi non sacrificabili»[5].
La Corte precisa che, allorquando nei gradi di merito si sia omessa la rilevazione ex officio della nullità, il giudice di legittimità conserva sempre la facoltà di procedere a siffatto rilievo. Inoltre, tale rilievo è necessario allorché la pretesa azionata in giudizio trovi il proprio presupposto nel contratto. Nel caso in esame, ut supra ricordato, l’attore non ha agito al fine di ottenere la risoluzione del contratto, ma unicamente per richiedere il risarcimento per l’inadempimento dello stesso. La richiesta risarcitoria, dunque, poggia sul contratto di prestazione d’opera intellettuale e, quindi, postula l’esistenza di un contratto valido. È di tutta evidenza come la nullità del contratto rappresenti, nel caso oggetto di scrutinio, una pregiudiziale logico-giuridica della pronuncia giurisdizionale. Il decisum del giudice mai potrebbe avere quale presupposto un negozio affetto da nullità, giacché quod nullum est nullum producit effectum, onde il principio di diritto enunciato dagli Ermellini.
In conclusione, la Suprema Corte, in carenza di rilievo di parte o del giudice di merito, ha rilevato d’ufficio la nullità ed ha cassato la sentenza, rigettando la domanda risarcitoria azionata dal ricorrente, in quanto fondata sulla validità tra le parti del contratto. Tale domanda esaurisce il giudizio, giacché l’istante non ha formulato azione di risoluzione contrattuale né altra pretesa; inoltre, la nullità assoluta (ex artt. 2229, 2231 e 1418 c.c. in combinato disposto con l’art. 11 del R.D. 31 maggio 1928 n. 1334) è ragione assorbente ai fini del rigetto della domanda risarcitoria.
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(Altalex, 5 agosto 2016. Nota di Marcella Ferrari)
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[1] L’odontotecnico, infatti, non avrebbe potuto prestare cure dentistiche stante il difetto di abilitazione professionale. In altre parole, non era un dentista e, pertanto, non aveva titolo per eseguire la prestazione sanitaria.
[2] In tal senso vedonsi Cass. 12 ottobre 2007 n. 21495; Cass. 11 giugno 2010 n. 14085.
[3] Agli odontotecnici sono vietate dalla legge la progettazione, preparazione e collocazione nel cavo orale del paziente delle protesi che necessitano di operazioni, come disposto dall’art. 11 del R.D. 31 maggio 1928 n. 1334, in quanto trattasi di attività riservate ai sanitari iscritti negli albi dei medici chirurghi o degli odontoiatri.
[4] Il principio della ragione più liquida fa riferimento al fatto che, nella decisione di una causa, si debbano tralasciare le questioni logicamente preordinate ma non dirimenti ai fini della risoluzione della vicenda. Trattasi di un principio improntato a ragioni di economia processuale, in virtù del quale è lecito comporre la controversia ricorrendo ad una questione anche logicamente subordinata purché assorbente, senza dover analizzare tutte le altre.
[5] In tal senso, A. TORRENTE – P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2014631 ss.