Mediazione, opportunità di trasformazione culturale? Intervista a Luciana Breggia

Intervista 25/05/2012

In vista dell'ormai imminente Assemblea Nazionale degli Osservatori di Giustizia Civile (che si terrà a Catania, 26 e 27 maggio 2012), ci ha concesso un'intervista la Dr.ssa Luciana Breggia, magistrato presso il Tribunale di Firenze e Coordinatrice nazionale degli Osservatori di Giustizia Civile.

L'intervista che vi proponiamo è l'occasione non solo per conoscere la realtà degli Osservatori, ma anche per condividere una riflessione sul ruolo che gli operatori del diritto, siano essi magistrati o avvocati, possono rivestire nella società attuale ed in questo momento storico.

Inoltre, essendo Luciana Breggia uno dei promotori del Progetto Nausicaa, protocollo di sperimentazione per la mediazione delegata attivo presso il Tribunale di Firenze, sarà interessante riflettere proprio con un magistrato sull'utilità di questo istituto e sul ruolo del giudice nella sua applicazione.

(Tratto da AltaMediazione.it, la più completa banca dati sulla mediazione civile)

Dottoressa Breggia, cosa sono gli Osservatori sulla Giustizia Civile?

Gli Osservatori sono associazioni composte da giudici, avvocati, personale di cancelleria, professori universitari -in alcune sedi vi sono anche ufficiali giudiziari -che si sono diffuse a partire dagli anni ’90 (Bologna, Bari, Salerno, Milano sono i primi, ora sono circa 30)nella convinzione cheper migliorare la giustizia civile non occorresse attendereunrito ideale,ma porre attenzione all'organizzazione, alla collaborazione tra tutti gli operatori del diritto e quindisvolgere una ricognizione e promozione delle prassi migliori.

Il metodo degli Osservatori si basa sulla collaborazione di tutti coloro chesono coinvolti nella gestione del processo; il processo, d’altronde, è il luogo dove i diritti vengono attuati ed è stato naturale cominciare da lì.

Oggi il metodo della collaborazione è collaudato, oltre ai protocolli di natura processuale, ci sono molte altre riflessioni anche sul piano del diritto sostanziale (diritto del lavoro, delle locazioni, danno alla persona e così via).

Si tratta essenzialmente diun movimento culturale, al di fuori di ogni logica di appartenenza, che sostienele scelte operative ritenute piùidonee a migliorare, ora e subito, la giustizia civile.

D’altronde la cultura è una leva molto potente di regolamentazione delle condotte umane.

E’ essenziale per gli Osservatoril'idea che l'organizzazione giudiziarianon dipenda dascelteinterne all'apparato giudiziario, ma si fondi sulla condivisione dei soggetti che a vario titolo concorrono all'esercizio della giurisdizione in vista dell’attuazione dei principi e dei valori della Costituzione.

Gli Osservatori sono sostenuti dalla Fondazione Carlo Maria Verardi, che opera dal 2003, in ricordo di uno dei principali e indimenticabili animatori di questa esperienza. Per chi volesse saperne di più ricordo anche il bel volume collettaneo uscito per i tipi de Il Mulino, nel 2011: Gli Osservatori sulla giustizia civile e i protocolli, a cura dell’avv. Giovanni Berti Arnoaldi Veli.


Come Coordinatrice Nazionale, aprirà i lavori della prossima Assemblea Nazionale. Il titolo del Suo intervento è: “Professioni e Giurisdizione nella società che cambia".
In che modo secondo Lei professioni e giurisdizione possono stare al passo dei cambiamenti della società?

Non è una domanda facile perché siamo in periodo di crisi e quindi di trasformazione. E forse dovremmo imparare anche questa abilità: di rimanere nell’incertezza, di starci per il tempo necessario a riflettere e capire la direzione giusta.

Penso che siamo nell’epoca della giustizia che un grande pensatore, Antoine Garapon, ha definito manageriale, incentrata sull’efficienza, sulla razionalizzazionedelle risorse, sui flussi e sui numeri. Probabilmente, dobbiamo recuperare un equilibrio, perché i numeri sono necessari, ma non dobbiamo perdere di vista la risposta istituzionale che siamo chiamati a dare, che è una risposta di giustizia non di mera liquidazione dei conflitti.

Dobbiamo tutti ‘ripensarci’: il giudice, che è tentato oggi di rifugiarsi di nuovo nel tecnicismo e nel legalismo, perdendo i livelli di ‘prossimità’ che ha raggiunto negli ultimi tempi; ma anche l’avvocato, che potrebbe avere un ruolo di grande importanza se non viene esaltato solo nel momento della contesa giudiziaria, ma coglie le possibilità offerte dal cambiamento e valorizza le abilità di consulente ‘fuori’ del processo oppure di mediatore. Anche altre professioni possono rigenerarsi dai settori tradizionali a quello della gestione dei conflitti ( e della prevenzione dei conflitti stessi).

 Dottoressa, Lei si occupa di mediazione delegata, sollecitando la diffusione di un Protocollo per la mediazione delegata, il Progetto Nausicaa. In che modo crede che la mediazione possa essere un utile strumento per il cittadino?

Penso che la mediazione sia un sistema di soluzione delle controversie molto più adeguato per un certo tipo di liti.

Ad esempio, la mediazione si presta ad operare nei casi in cui la stessa  forte interdipendenza tra le parti genera il conflitto, come nei rapporti di vicinato o familiari, ma anche nei rapporti commerciali a volte. In questi casi la sentenza rischia di risolvere la controversia attribuendo torti e diritti senza soddisfare l'interesse di nessuna delle parti, ma soprattutto rischia di intervenire su un aspetto sintomatico, lasciando intatto il focolaio del conflitto, senza preservare la relazione per il futuro. E’ chiaro che se la mediazione va a toccare il focolaio, avrà anche un effetto indiretto di deflazione.

Ma non credo che sia questa la sua ragion d'essere (e quindi nemmeno il criterio in base a cui valutare la sua bontà o meno).

Anzi, io credo che la mediazione possa aiutare i cittadini, e in genere le persone che si trovano in conflitto, a risolvere liti che magari  non avrebbero la capacità o la voglia di portare dinanzi ad un apparato costoso e formale quale quello giudiziario. La mediazione è una giustizia informale, più rapida e meno costosa, più adatta a queste liti ‘di prossimità’.

Comunque, sono convinta che la mediazione ( se si evitino usi impropri e si possa contare su mediatori formati), sia  un'occasione di trasformazione culturale per gli operatori di diritto, ed anche per gli utenti del bene comune Giustizia, chiamati a farne un uso responsabile.  L’importante è che nel contempo si effettuino tutti gli interventi necessari per ridare  funzionalità alla giurisdizione civile e far sì che il cittadino possa davvero scegliere tra le possibilità offerte dall’ordinamento e la sua decisione non sia coartata dall’inefficienza della giurisdizione stessa.  


Cosa può fare un giudice per agevolarne la diffusione?

In questa fase storica, in Italia, si avverte per lo più da parte degli avvocati e delle parti la percezione chela mediazione sia uno strumento per la soluzione di controversie di serie B, una giustizia ''al ribasso'.Le parti attualmente preferiscono il giudice perché lo ritengono più importante del mediatore, socialmente e professionalmente. Di conseguenza l'invio in mediazione può essere vissuto come una svalutazione dell'importanza del loro problema.

Credo che spetti soprattutto al giudice contrastare questa percezione errata e orientare una culturaa favore dellacorretta coesistenza di modi diversi di soluzione, diversificati non per importanza del conflitto o delle parti, ma semplicemente per la diversa duttilità dei metodi.

In questo, la conciliazione ‘delegata’ o meglio demandata dal giudice può essere uno strumento di informazione e formazione ottimo, sempre che il giudice non ne faccia un uso improprio, ma selezioni i casi con cura.

Paradossalmente,il giudice che fa un uso troppo largo e meccanico dell'invio in mediazione, senza entrare in colloquio con i difensori e verificare le possibilità di accordo bonario, svilisce il proprio ruolo e quello della mediazione.

Altro pericolo da evitare, sempre connesso al ruolo del giudice, è quello legato alla pressione che egli potrebbe, più o meno consapevolmente, esercitare: tra gli effetti negativi, basti pensare alla scarsa utilità di un invio quando le parti sono 'spinte' anziché persuase a sedersi al tavolo del mediatore e anche al pericolo che lo stesso mediatore si senta investito di una sorta di obbligo di risultato anziché di mezzi.

Insomma, penso che la mediazione ‘delegata’ possa essere un modo di ‘formarsi sul campo’, particolarmente utile in una fase in cui ancora giustizia è sinonimo di processo.

Magari chissà, quando si accetterà l’idea di differenziare le forme di tutela a seconda delle liti e dei contesti, la mediazione delegata esaurirà al sua funzione perché in mediazione, se del caso, si andrà sin dall’inizio. Chissà. Occorre riflettere e sperimentare, senza preclusioni e pregiudizi.

 (Fonte: AltaMediazione.it - 25 maggio 2012 - Intervista a cura di Adriana Capozzoli alla Dr.ssa Luciana Breggia)

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